Che senso ha | EX-PEDIRE | Oggi

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EX-PEDIRE | INTRAISASS 2 | Nella foto di Aldo Frezza celebriamo il 13° anno dalla pubblicazione del primo articolo di Intraisass.it – la FU Rivista di letteratura, alpinimo e arti visive. Davvero un avamposto, col senno di poi.

Pubblichiamo in anteprima su casadicultura.it – per motivi di condivisione tra più discipline – il testo base per la prossima spedizione nelle zone remote dei Cinque Tesori della Grande Neve, la Kanchenzonga Zemu Area. Un testo che prende come pretesto una domanda specifica per rispondere a ciò che si nasconde dietro: una domanda universale, a cui l’autore prova a dare una risposta “memorabile”. Incontreremo Clarice Lispector, Fosco Maraini, Ma Jian, Murakami Haruki, Fernando Pessoa, Lawrence Ferlinghetti, Marlen Haushofer, Monika Bulaj, Guru Rimpoche, punte di un universo culturale che qui non possiamo del tutto svelare. Un percorso di cui ora vi porgiamo il primo frutto. Prima della partenza. Alcune anticipazioni le troverete all’interno del testo. Buona lettura.

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«Il linguaggio è il mio sforzo umano. 
Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote
Però - ritorno con l'indicibile. [...] 
Ed è inutile tentare di abbreviare il percorso. 
Esiste la traiettoria, e la traiettoria non è solo un modo di procedere. 
La traiettoria siamo noi».
Clarice Lispector, La passione secondo G.H.

CHE SENSO HA UNA SPEDIZIONE IN HIMALAYA OGGI

di Alberto Peruffo

Che senso ha una spedizione in Himalaya oggi?

Anno 2013. Che senso ha mettere il piede fuori di casa oggi, in un ambiente ostile, ma già esplorato? In questa semplice domanda postami da una persona molto intelligente – domanda da me rivisitata pescando nella radice della parola spedizione (ex-pedire, mettere il piede fuori) – sta racchiuso il senso di ogni cosa, non solo di una spedizione in terre estreme.

Di fronte a una questione così importante proverò a dare una risposta memorabile, che possa rimanere impressa nella memoria, avvalendomi di una singolare intuizione di senso che accompagna da molti anni i miei studi e le mie esperienze. Una risposta che ci porti un passo oltre la celebre risposta di George Mallory di fronte all’inesplorato, all’Everest, «perché è là!».

Tuttavia – prima di affidare alla scrittura una risposta che potrebbe creare qualche spaesamento – suggerisco a tutti – me compreso – di seguire un breve percorso di avvicinamento mediante la lettura di alcuni passi significativi che ho incontrato, a riguardo, negli ultimi anni e che mi sono segnato in un quaderno, senza distinzione di discipline o di ambiti. Parole comprensibili anche a mio figlio adolescente. Fatta eccezione per alcuni strappi. Una specie di aratura prima di mettere il seme.

Ho scelto due passaggi molto semplici di letteratura. Anzi, non mi meraviglio mai abbastanza di come certi passi di letteratura valgano più di dieci trattati di filosofia.

Scrive Ma Jian in Polvere rossa:

«La vita in Cina è un buco nero e io mi ci voglio immergere. Non so dove sto andando, so soltanto che devo muovermi. Porto con me tutto quello che ero; tutto quel che sarò mi aspetta sulla strada che percorrerò. Voglio pensare camminando, vivere sempre in movimento. Non sono più in grado di reggere una vita chiuso dentro a una stanza».

Per facilitare la mia intuizione alla base della risposta memorabile che vi darò alla fine, prendiamo passo passo le parole dell’artista cinese, come fossimo impegnati in una difficile ascensione, gli 8586 metri del Kanchenzonga. Tutto diventerà più accessibile.

1. «La vita – non tanto e solo in Cina – è un buco nero e io mi ci voglio immergere».
Qui abbiamo il senso del limite. La consapevolezza del niente, del nero, che è fuori (e a volte dentro) di noi, fino a quando non diventi nostra esperienza, la nostra vita. È necessario che lo affronti, per vivere.
2. «Non so dove sto andando, so soltanto che devo muovermi».
Qui abbiamo la ricerca di senso. Senza alcuna utilità, se non il movimento. Il transitare da un luogo all’altro. Per propria volontà. Altrimenti è la morte. Ciò che distingue la vita dalla non-vita. L’animale dal vegetale. Il vegetale dal minerale.
3. «Porto con me tutto quello che ero; tutto quel che sarò mi aspetta sulla strada che percorrerò».
Qui abbiamo la costruzione della realtà attraverso l’esperienza personale. «Io ho – e poi sono – la dimensione di ciò che vedo», scrive in uno dei passi più formidabili della letteratura mondiale Fernando Pessoa.
4. «Voglio pensare camminando, vivere sempre in movimento».
Qui – per chi sa vedere oltre le parole – abbiamo per 2/3 la più alta definizione di uomo, di uomo non ancora deviato da una specializzazione verso uno dei suoi estremi: il vivere esclusivamente con la mente, il vivere esclusivamente con le altre parti del corpo; o con loro forti dominanze. Devo pensare e camminare, come fatti inscindibili per vivere bene. Se non mi muovo, se non esco da me, se non incontro l’altro, la difficoltà oltre il mio abito – sia esso luogo, mente, veste – non penso come si deve. E se non penso come si deve, non vivo. Ma vegeto.
5. «Non sono più in grado di reggere una vita chiuso dentro a una stanza».
Qui abbiamo la constatazione – quasi un’epifania – di ciò che è annunciato prima, dell’alterità, dell’altro, di tutto ciò che è al di là della nostra pelle, del nostro involucro, della nostra stanza, della nostra casa, del nostro paese, della nostra nazione, della nostra abitudine. Io sono in quanto faccio un passo verso l’altro. Altrimenti non sono. Potrei essere. Resterei un potenziale di vita. Inespresso. Un’immagine mentale. Una masturbazione di me stesso. Un sogno che potrebbe generare incubo.

Ma Jian – ricordo ancora – è un artista. Le arti classicamente intese, espressive, portano spesso al finale del punto 4. L’alterità è spesso un mero artificio. Ma sull’arte e le sue ossessioni non è questo il luogo per soffermarsi. Torneremo dentro a una stanza.

Abbiamo invece già fatto un piccolo passo oltre. Siamo usciti. Dalla stanza. Da casa. Ma che senso ha andare in ambienti difficili, ostili, per non dire estremi?

Semplicemente – si potrebbe rispondere senza sbagliare – tutti quei punti analizzati sopra si svilupperebbero all’ennesima potenza. Per chi sa gestire la complessità di ambienti non facili, potrà ricavare tutte quelle risposte all’ennesima potenza. Anzi, visto che si tratta di agire, di realizzare una possibilità, all’ennesima attualità. Vivrà una vita di grande intensità. Per questo si parte per «strade sterrate», incontro a «posti sperduti», per citare una suggestione di Lawrence Ferlinghetti.

Entriamo ora nel cuore della questione.
Leggiamo cosa scrive Maraini quando si affaccia sul limite dei Cinque Tesori, sul mondo estremo del Kanchenzonga:
«Ma adesso voglio avvicinarmici per davvero. Non tenterò la salita di colli o di cime, né intendo fare ricerche o rilievi: ho un unico desiderio, ed è vedere. Sarò come il pellegrino che giunto alla meta s’inginocchia e tace».

Qui siamo solo sul limitare dell’estremo. Si è usciti da casa e si è giunti sulla soglia del limite. Già il vedere, la contemplazione e l’azione che hanno portato a questa visione, è una grande cosa. Un’uscita fuori misura.

Chiedo ora aiuto ad Haruki Murakami per prepararmi al passo successivo, per andare oltre.

Dall’Arte di correre:
«Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare almeno per un istante la sensazione autentica di vivere. Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione stessa, vi scorre dentro».

Premesso che parole come autentico, verità, assoluto, qui vanno prese con la dovuta attenzione, senza pretesa di trascendenza, il pensiero di Murakami è un primo passo per capire che la fatica ci rende consapevoli del limite. Se poi la fatica viene espressa non solo in ambienti costruiti ad hoc – come quelli della corsa “sportiva” sottintesi dall’autore – ma in ambienti dove la complessità degli elementi e la grande ampiezza tra questi, l’oscillazione tra le situazioni, ad esempio la quota e le condizioni del terreno, dalla roccia al ghiaccio, quella fatica ci rende consapevoli non solo del limite nostro, ma del limite delle cose. E il limite oggettivo ci restituisce il valore, la qualità, la quantità non misurabile della vita. Di tutta la vita. Non solo la nostra. La sensazione autentica di vivere non si trova in valori misurabili, ma nella fatica di muoversi tra essi, nel coraggio di vincere la fatica, di affacciarsi al proprio limite, soprattutto se il nostro limite si compone con i limiti di ciò che non siamo noi, ciò che ci circonda. La complessità. Ci troviamo di fronte a una qualità all’ennesima potenza. La qualità nostra composta con la qualità delle cose. E siamo a metà della risposta.

Ora, la fatica in ambienti difficili, l’esposizione continua al nostro limite dato dagli ambienti ostili, questo nostro limite può diventare il limite? Il limite oggettivo, esemplare per una classe intera, quella degli alpinisti, o per salti ampi, l’umanità? In altre parole, può il nostro limite essere il limite della storia? Salito una volta il Kanchenzonga – messo a confronto il limite di un uomo con il limite del luogo – perché salirlo un’altra volta? Ritornando alla domanda iniziale, che senso ha oggi, andare in Himalaya, quando queste montagne sono già state salite?

Qui ovviamente evito l’ambito del limite supremo, la morte, l’abisso, e di ciò che si pensa oltre, l’oltre assoluto, in un certo senso il Dio, gli Dei, e altri nomi generati dal vuoto, dall’ab-surdo, da ciò che è sordo, non parla e non risponde, al quale la risposta più saggia da dare è l’ascolto. Il silenzio. Non perché non è di nostra pertinenza – di colui che deve rispondere a quella domanda iniziale – ma perché quello non è un ambito, ma è lo sfondo di tutto, il ricettacolo delle domande. Chi viaggia con le punte dei piedi sull’abisso, in montagna, lo sa bene. Percepisce costantemente il limite ultimo su cui ci muoviamo. Quasi fosse un “presentimento del sacro”. Così io uso dire per secolarizzare – rendere agevole – con un’espressione e una parola un concetto fondamentale. Basti per questo quanto scrive l’amica Monika Bulaj. «Il sacro passa attraverso il corpo. Lo trafigge». Come a dire che la ricerca del sacro avviene attraverso un’estrema prova dei sensi. In ambiente ostili. Alla nostra mente. Che è corpo. E al corpo, che è fatto di mente. «Il sacro non mente» conclude Monika per aiutarmi a dare fine a un gioco di parole che nasconde percorsi etimologici di fondamentale importanza. Pericolosamente ascetici.

Allora, che senso ha oggi, andare in Himalaya, quando queste montagne sono già state salite?
Infatti per taluni non basta constatare quanto accennato sopra e detto prima, che salire una montagna porti comunque a una ricerca di senso, anche contingente, semplice, di trovare una via, seppure già fatta da altri, perciò sempre e comunque a vivere una libertà concreta, in ambienti esterni, non per forza estremi, fare perciò una sana esperienza individuale, che ti espone all’altro, che realizza una persona facendola uscire dalla sua stanza per andare incontro al mondo. Se ciò non è sufficiente per coloro che non trovano senso nel già visto dagli altri perché vogliono vedere assolutamente qualcosa di mai visto, da nessuno, vi affido questa intuizione che porterà alla risposta memorabile. Mi esprimerò in prima persona, ma l’io che seguirà è impersonale, valido per tutti.

«Io posso raccontare – grazie alla mia forma mentis, alla mia persona – una montagna come nessuno mai l’ha raccontata e quella montagna prenderà forma e realtà (attenzione, realtà!) grazie alla mia narrazione. Se io vedo e provo una cosa meravigliosa e non la condivido quella cosa morirà, non diventerà mai realtà, e se lo è già perché altri l’hanno narrata, io posso arricchire quella narrazione con cose e fatti che nessuno ha visto mai».

Qui ci sta un’intuizione filosofica (preferirei dire gnoseologica ed esistenziale allo stesso momento: la filosofia come la conoscenza prese per sé, per riempire la bocca di chi parla, sono termini spesso arroganti), dietro a quel passo – dicevo – ci sta un’intuizione filosofica, di grande rilevanza, anche se sfugge nella banalità del quotidiano, perché connaturata al nostro vivere. Fa parte di noi e non ce ne rendiamo conto. È il concetto della condivisione delle cose, il concetto di realtà che si costituisce e diventa condivisa altrimenti andrebbe perduta, concetto che trova forza attraverso un senso di libertà concreta, di sentirsi in vita nella “lotta con gli elementi” (su questo “principio di realtà” ritornerò con Maraini). In parole più sottili, la condivisione di un’esperienza soggettiva diventa esperienza oggettiva assolutamente originale attraverso la forma della mia mente: una storia soggettiva diventa storia universale attraverso un racconto inedito che neppure il primo esploratore è stato in grado di fare, perché cercava o guardava da altre parti. Magari solo l’altimetro per arrivare a 8586 metri, trascurando le parole di Guru Rimpoche (che presto vi dirò). Questa possibilità di narrare in modo nuovo le cose, che si costituiscono a realtà grazie alla nostra esperienza, ci fa vincere ogni ritrosia sulla storia, sul presunto già visto, perché nessuno mai vedrà con i nostri occhi e nessuno mai potrà comunicarlo come lo farà la nostra persona. Io potrò vedere cose che tu non hai visto. La storia del soggetto vince sul mondo oggetto, il quale, senza condivisione, cade tragicamente nel nulla.

Le cose esistono, ma diventano realtà solo grazie alla nostra esperienza condivisa.

In sintesi, non trascuriamo mai la nostra esperienza personale, potrebbe essere fondamentale e parte costitutiva del mondo, scoprire cose e vedere aspetti che nessuno ha mai visto. Parti, sempre, compagno! Molti alpinisti hanno scalato montagne attratti solo dalle altezze, dimenticando tutto il resto e narrando spesso solo l’aspetto tecnico delle loro ascensioni. Non so se intendete la potenza di queste parole? Quanto ancora c’è da fare e da raccontare! Potrei costruire una provocazione e forse il Kanchenzonga – grazie a Fosco Maraini e ai miei interlocutori – è l’esempio più eclatante: il migliore che la storia contemporanea dell’esplorazione possa offrire all’immaginazione. E ai miei piedi.

Considerate quanto segue come ipotesi provocatoria. Che chiama a sé una voce. Niente di trascendente. Solo una voce fuori dal coro. Da ciò che la nostra mente è abituata a vestire.

L’Everest, il K2: montagne belle, altissime; ma non bellissime, per certi aspetti. Per certi, dico. Quelli a noi più cari per la nostra ipotesi. Anzi, ipotizziamo che gli alpinisti che le hanno scalate con un certo sentimento, hanno sbagliato montagne, o meglio non hanno trovato niente sulla cima di quello che si aspettavano: solo sassi, pietre e neve. Peggio, affermiamo che molti altri hanno speso migliaia di dollari per essere portati su, magari intossiccati dall’ossigeno e dalle loro manie di grandezza. Ma non hanno trovato niente. Solo sassi, pietre, neve… Forse ghiaccio. E, a volte, bianca o nera, la morte.

Il Kanchenzonga invece…

Leggiamo con trepidazione il passo cruciale di Maraini nel momento in cui ci presenta il Kanchenzonga:
«In tibetano cang vuol dire neve, cen significa grande, dzö lo si può tradurre con tesori e nga sta per cinque; dunque Cang-cen-dzö-nga letteralmente equivale ad “i cinque tesori della grande neve”, nome che viene dato nel Sikkim ad una delle più alte montagne della Terra, ch’è inoltre, senza dubbio, una delle più belle. Alcuni pensano che per “tesori” s’abbiano ad intendere vette e s’ingegnano a contarne cinque; pare invece che i “tesori” corrispondano a cinque mitici tesori sacri che Padma Sàmbava (detto in tibetano Guru Rimpocé) abbandonò sulla cima del monte, ove resteranno nascosti fin quando l’umanità non sia giunta ad un tal grado di evoluzione spirituale da poterli comprendere».

I cinque tesori della grande neve! A parte che la Grande Neve – per chi si domanda il perché si scalano montagne – potrebbe essere tradotta senza mezzi termini in alpinismo; a parte questa immediata traduzione, cosa consegue da questo funambolico passo?
Il Kanchenzonga assumerebbe le fattezze di un tempio dell’alpinismo: diventerebbe i “cinque tesori dell’alpinismo”. E l’alpinismo vestirebbe le sembianze di una vera e propria disciplina. Una disciplina sui generis della conoscenza. I Tesori abbisognano infatti di un “evoluzione spirituale” per poterli comprendere. Diciamo, per non usare termini che conservano troppo aloni di trascendenza e che possono sembrare elitari, i tesori abbisognano di una predisposizione d’animo. Ciò a cui ognuno può aspirare – con vari modi, tecniche e attitudini – ma non tutti raggiungere. Comprendere quei tesori sarebbe una gran cosa. Per sé, per l’uomo che li raggiunge, ma anche anche per gli amici. Un bene per tutti. Per l’umanità, se a questa grande parola diamo il concreto significato del consesso degli umani che si sono trovati insieme in questo pianeta a vivere l’esperienza che chiamiamo vita.
Ecco, che io sappia, nessuno (o presumo pochi, a me sconosciuti), nessuno di coloro che sono stati sul Kanchenzonga ha portato a casa uno solo di questi tesori. Pensavano ad altro. Alla cima. Forse il passaggio obbligatorio per quei tesori.

Io parto in cerca di questi tesori.
Spero di portarne a casa almeno uno.
Per vivere bene.
Per gli amici.
Per i miei figli.

Dite questo a chi fatica a capire. Ora abbiamo le parole. Senza liquidarle come fossero una suggestiva metafora. Potrebbe anche non esserlo. Dite… «è partito alla ricerca di un tesoro, non ho capito che tesoro sia, ma sai, i cercatori di tesori… ori… gli ho sempre ammirati… Lui – che sarei io, lo scrivente, e i miei compagni – fa circa lo stesso. È che i suoi tesori sono nascosti in alta montagna, e si fatica molto di più per raggiungerli. Ce ne sono ben cinque in quella montagna. I Cinque Tesori della Grande Neve. Che nome magnifico! Contento lui… forse ci racconterà grandi cose. Certamente tribola, ma si diverte, e magari tornerà pure ricco. Di cosa, non saprei dirti… Non conosco l’argomento, la montagna, i suoi tesori. Preferisco ascoltare e sentire cosa mi racconta. In bocca al lupo e buon divertimento».

Ecco la parola chiave dell’alpinismo. La più nascosta e difficile da capire. Divertire. Di-vergere. Diversione? Volgere lo sguardo altrove! Portare sé in altri luoghi senza alcun motivo se non il vedere, l’affacciarsi puro e semplice al limite. Con andatura da diporto. Da sportivo. Diportivo?

Sì. L’alpinismo è sport, anzi, vorrei dire l’unico autentico – etimologicamente – sport. Diciamo pure, per non essere esclusivi, tra i pochi all’ennesima potenza. Che diventa atto senza modificare l’altro con cui si confronta. Quel divergere che non crea a proprio uso e consumo, a propria immagine, i luoghi del proprio agire. Che esce addirittura dall’agone – e dai suo artificiosi competitori – per affrontare l’ambiente. La natura selvaggia ed entropica. Ciò che diverge radicalmente.

Attenzione cosa dice Fosco Maraini con una semplicità disarmante:

«Io credo che il suo segreto sia appunto questa gioia di violare, percorrendoli, luoghi che non sono fatti per l’uomo. […] L’alpinismo è anzitutto una questione spirituale; nessuno si sognerebbe di sobbarcarsi a certe fatiche, e d’esporsi a certi pericoli, se l’animo non vi trovasse un indiscutibile appagamento. L’alpinismo è un’affermazione della propria personalità sulle forze avverse della natura: l’alpinismo è un combattimento senza nemici, un combattimento infine ove anche le vittorie più belle non sono macchiate dal dolore causato ad un vinto».

Concettualmente magnifico. L’alpinismo è tra le massime nostre affermazioni (guardate come è composta la parola af-ferm-azione) contro il divenire entropico delle cose. Un passo fermo di fronte al nulla. Un lampo di gioia nel divenire irreversibile delle cose. Un tesoro non sottoposto ad omologazione.

Partirò dunque in cerca dei cinque tesori. Per divergere dal solito andare. Da quel divenire che tutto mangia e uniforma. Sia esso quotidiano, nelle cose di casa, sia esso universale, nelle cose del mondo. Entrambi inevitabili, ma non per questo affrontabili… a modo mio. Sub specie mia vita. Io, libero e consapevole, affacciato sui limiti del mondo e della conoscenza.
Partirò perciò in cerca di nuove vie. Del corpo, della mente, dello sguardo. Chissà mai cosa capiterà, o vedrò? E che conseguenze avranno queste mie esperienze, queste mie visioni… sulla mia vita. E su quella dei miei cari.

Siamo alla fine. Sulla soglia di una scoperta che sorvola le discipline, l’alpinismo.

Ritorniamo con forza su Mallory, al suo «perché l’Everest?», l’Himalaya, il Kanchenzonga?
Rispondo: «Perché è là, ma Edmund Hillary e compagni non hanno visto tutto ciò che si poteva e doveva vedere». Si sono dimenticati dei cinque tesori, o almeno di buona parte, e io non posso restare quieto, accontentarmi della loro visione. Chi non mi dice – se non la mia fatica e la prova sul campo – che io vedrò qualcosa di più? Che troverò – io, me stesso – parte di quei tesori nascosti da Guru Rimpoche?

«Posso fare questo, ma anche devo».

Non è solo un potere dell’uomo. Ma anche un dovere.
Il dovere di continuare ad affacciarsi sui propri limiti e su quelli del mondo, con occhi nuovi; seppure dalla stessa cima! Il punto di vista può essere lo stesso, ma la visione diversa.
Se sarò di ritorno – e avrò visto qualcosa di nuovo, uno di quei tesori – sarà mio dovere raccontarvi qualcosa.
Se non racconto, quel  tesoro morirà con me e io morirò con lui, e la mia stessa esperienza potrebbe essere nient’altro che un sogno. Che non ho realizzato. O che non saprò veramente se sia stato reale, accaduto, perché non l’ho condiviso. Comunicato. Messo in comune. La scoperta filosofica finale: l’uomo ha bisogno di comunicare per essere reale. L’altro da noi è fonte di realtà. È un principio di realtà che non possiamo mai trascurare. Anche se ci trovassimo a vivere da soli separati dal mondo come nel capolavoro assoluto di letteratura – proprio per questa intuizione – di Marlen Haushofer, La parete, ambientato guarda caso in montagna.

Parto, mi metto in viaggio – alla resa dei conti – per un principio di realtà. Per avere nuove visioni. Per poter continuare a credere di poter vedere ancora. Anche cose che forse nessuno ha mai visto. E raccontare questa straordinaria avventura a qualcuno. Fosse questo qualcuno anche una parte di me, che lascerò dopo di me. Un quaderno. Un confronto leale con me stesso e con il mondo. Non vorrei infatti che tutto ciò che ho visto fosse un sogno. La mia stessa vita. Perciò parto soprattutto per difendere la mia misera, sincera, straordinaria, condizione di uomo. Misera, sincera, straordinaria, condizione di uomo. Ecco il punto: voglio continuare a pensare; camminando; insieme.

Ma Jian aveva ragione. Mancava solo l’ultimo terzo.

Su questo e altro sto completando L’ARTE ARMATA E LA RELIGIONE DISARMATA – Sequenze teoretiche e conseguenze pratico-politiche della Prima Formulazione del Realismo Costituito.

Sono, siamo, finalmente alla risposta memorabile, articolata in tre varianti a seconda che l’interlocutore abbia una predisposizione materiale, geografica, filosofica. Ogni risposta ha una dominanza, ma contiene le altre due.

Dunque, che senso ha una spedizione in Himalaya oggi?

1. Parto in cerca dei cinque tesori della grande neve, ancora non trovati.

2. Parto perché l’Himalaya (l’Everest, Il Kanchenzonga) è là, ma colui che ci è stato prima di me (coloro che ci sono stati) si è dimenticato di guardare dove era necessario.

3. Parto per zone remote e ostili, in parte esplorate, perché voglio continuare a pensare. Camminando. Insieme.

Ogni risposta è valida e aprirà l’immaginazione del nostro interlocutore.
Tutto il resto è paura.

Alberto Peruffo

alberto_peruffo_CC
Montecchio Maggiore, 8 marzo 2013

14 Comments

  1. Bellissime parole, semplici ma efficaci nel raccontare quanto è fantastico il mondo dell’alpinismo e della montagna in generale. Il desiderio di scoperta, la sete di avventura, la necessità di immergersi nell’ignoto. L’interpretazione degli elementi che ti circondano, la valutazione del rischio, l’immensa gioia che provi per quello che vedi, senti e respiri. Sono questi momenti di alpinismo esplorativo che ti fanno percepire la vera gioia di vivere, scoprendo lungo il cammino ció che è davvero importante.
    Grazie Alberto per aver condiviso queste riflessioni.

  2. Sul “divertimento” preferisco le riflessioni (a memoria dopo anni) di Ejzenštejn, dove divertimento, medesima etimologia, era però inteso come lo spostare l’attenzione dal vero centro del problema. In questo senso trovo molto bello e ben scritto il presente “divertissement”…

  3. vedi, è proprio il genere e l’accezione del divertimento che conta, possiamo dire con il tuo spostamento di centro

    il vero problema è restare al centro

    dici bene quando scrivi che questo è un divertissement (lo è in quanto preparatorio, riflessione, prima dell’azione)

    Ejzenštejn non scalava montagne e il suo divertimento era sulla forma delle immagini (rappresentazioni)

    se al posto di Ejzenštejn fosse comparso Diemberger (Kurt) tutto sarebbe stato più complicato

    il divertimento, là fuori, è infatti, secondo Diemberger, grande cineasta sui generis, di diversa natura

    a prescindere da questo mio letterario divertissement

    grz del prezioso commento
    a_

  4. POSTILLE AD EXPEDIRE. OGNUNO SCEGLIE DOVE FERMARSI.

    Mi scrive Giovanni Rossi, past-presidente del CAAI e grande uomo di cultura:

    Postille a Expedire…

    L’operare dell’ente, che consegue al suo essere (esistere), è fatto coincidere – nella dottrina di Tommaso d’Aquino – con il voler confermare la propria identità nel confronto con l’altro. [«Per essere, l’ente deve restare se stesso e distinguersi rispetto agli altri. Non ci si può distinguere dagli altri se non confrontandosi con gli altri, cioè uscendo dal proprio in sé, allontanandosi da sé, diventando un altro. D’altra parte è possibile confrontarsi solo tenendo ferma la propria identità. Questo movimento circolare (o riflessivo) – da sé verso sé – non è altro che il sussistere in se stessi (ritornare alla propria essenza).» (P. W. Rosemann – Omne ens est aliquid).]

    Questo altro da sé (aliud quid) non è necessariamente un nostro ‘simile’, può anche essere una montagna? Si tratterebbe quindi di muoversi (expedire come liberare il piede dai ceppi?) per andare a vedere una montagna (Maraini). Non una montagna qualsiasi (avventura fine a se stessa – Mallory 1923) ma una montagna con una sua identità (geografica e storica), una montagna diversa dalle altre, che ha un significato nella nostra vita. Confrontarsi con una montagna? Ritrovare se stessi salendo una montagna (per le vie che essa – la sua natura – ci suggerisce), o anche solo vedendola?

    Salire la montagna solo per le vie che essa ci consente di percorrere non è forse il primo passo verso la montagna sacra, l’Himalaya dei Tibetani?

    «Il vecchio Lama di Rongbuk accolse con apprezzamento l’ispirata spiegazione del Generale Bruce che gli Inglesi erano venuti in una specie di pellegrinaggio. Benedisse i portatori tibetani ed emise un avvertimento: “Questo paese è molto freddo; solo chi viene per fini religiosi può vivere qui, per gli altri è difficile. Inoltre la divinità del luogo è terribile, così vi prego di prendere cura per quanto è possibile di voi stessi.”» (Everest 1922)

    «Mr. L., al quale il nostro destino stava molto a cuore, da buddista praticante ci benedisse per il viaggio mettendo un velo bianco intorno al collo di ciascuno di noi, e ci ammonì di non trattare male il monte sacro, di non imprecare o stare in collera con esso, e nei giorni di luna piena di lasciare ai portatori il tempo di venerarlo devotamente.» (P. Bauer –Kangchenjunga 1929)

    Rispondo io:

    Gentile Giovanni,
    molto preziose le sue postille.
    Certamente il testo e le sue osservazioni aprono lo spazio ad approfondimenti.

    La dottrina di Tommaso d’Aquino è sicuramente pertinente alle premesse ontologiche del mio testo. Tuttavia si fa un passo in più nel momento in cui si considerano le cose “esistenti” nel loro divenire reali, realtà.

    «Le cose esistono, ma diventano realtà solo grazie alla nostra esperienza condivisa» – questo passaggio, in apparenza semplice, è invece molto ostico e ho scritto un piccolo – ma credo importante – spunto teoretico (sul realismo costituito) che prende spunto dall’attuale dibattito (da Eco a Ferraris) sul realismo e dalla mia frequentazione dei primi costruttutivisti e cibernetici.

    Consideri solo questo: lei, alpinista, parte per una valle sconosciuta e scopre uno scorcio, una montagna mai vista. Quella montagna esiste, fuori di lei, ma nessuno non l’hai mai trovata. Quando lei torna, per i casi della vita (vari), lei non dice niente a nessuno. Ipotizziamo che mai nessuno più metterà piedi in quel luogo. Quella sua visione – senza documentazione (narrazione, foto, o altro) – morirà con lei e quella montagna (quell’esistenza in quanto reale soggettivo non trasmesso) andrà persa per sempre. Non diventerà mai realtà (oggettiva, documentata, conoscibile ad altri). Esisterà sì la montagna, ma sarà una realtà solo dentro alla sua mente che l’ha vista ed elaborata fin quando la sua mente sarà viva. La realtà si costituisce attraverso la condivisione. Anche di un soggetto con se stesso che ha bisogno di scrivere, documentare, parlare, per uscire da ciò che potrebbe essere un sogno. Lo stesso vale per la nostra “identità”, se vogliamo tornare a Tommaso, e superarlo. L’altro non so solo ci identifica, ma ci costituisce a realtà. Qui poi c’è il salto nel vuoto nel momento in cui ci rendiamo conto che la morte priva il morente del suo potere costitutivo nei confronti della realtà, ma a lui sopravvive un qualcuno (lo esperiamo ogni giorno) che fa continuare quella realtà – che ogni giorno viviamo – senza di lui. Pauroso.

    Su questo e altro quel mio testo che forse un giorno le giro e dove tutto è spiegato con maggiore rigore di queste veloci righe.

  5. Maurizio Mazzetto ci ricorda questa straordinaria citazione:

    «C’è un altro lato del Kanchenjunga e di ogni montagna: quello che non è mai stato fotografato e riportato in cartolina, ed è il solo lato che vale la pena di vedere».

    Thomas Merton, Diari (19.11.1968. Tenuta Min Tea)

  6. come non condividere(?),
    mi torna alla mente l’Ulisse Dantesco:
    “..fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
    una molla formidabile che ci spinge oltre le nostre Colonne D’Ercole;
    oltre i nostri limiti culturali, sociali, geografici;
    come non distogliere comodamente lo sguardo dalle nostre “Colonne” ???
    Un vecchio professore, ormai raro umanista in un mondo di contabili,
    sostiene che il segreto è mantenere viva la curiosità per il mondo
    e la capacità di stupirsi ogni volta,come un bimbo!
    E questo ti farà scrivere nuove e belle pagine
    anche di una vecchia montagna!!!

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