La percezione semantica. Del colore.

[Con un contributo di Vittorio Matino, in calce] In attesa della Galleria fotografica del Vernissage di sabato 24 settembre, pubblichiamo la traccia dell’approfondimento fatto a voce da Alberto Peruffo agli amici e ai convenuti presso la CCC per spiegare il concetto di “percezione semantica del colore”.

A.P. >> Prendiamo la brochure-catalogo di Vittorio Matino e leggiamo come viene sintetizzata la percezione semantica: «la percezione di un qualcosa che travalica le sperimentate sintassi tra i colori, un’operazione del senso e della mente che va oltre la semplice percezione del colore e dei consueti rapporti cromatici. Le Carte di Matino evocano la costruzione di un linguaggio sui generis, vissuto passo passo. Contro ogni sterile convenzione».

Per capire ancora meglio prendo uno stralcio della corrispondenza che ho avuto con Matino prima di approdare al sottotitolo della mostra CARTE 2010. La percezione semantica del colore:

Gentile Vittorio,
[…]
Le darò una metafora in più per la percezione semantica.
La “percezione semantica” può essere meglio compresa applicandola alla musica d’autore, quella che ha un testo scritto in una lingua in parte sconosciuta all’ascoltatore. Ad esempio, abbiamo di fronte una bella (o turbante) musica di un cantautore in lingua straniera, da noi appena comprensibile per quanto riguarda sintassi e lessico, ma potentemente suggestiva di emozioni e di significati, questi ultimi evocati da una composizione di senso e intelletto che non sappiamo mai spiegare del tutto: *

PARENTESI ORALE ALLA LETTERA* Ad esempio una canzone ci dà pochi appigli come le parole “war” – “peace” – “love”. Aggrappati a quegli appigli percepiamo pure gli accordi, l’armonia, ci lasciamo trasportare dalla canzone, anche se capiamo poco del suo significato. Anzi, da lì iniziamo a immaginare, a intuire che c’è una coerenza, un linguaggio personale, vissuto, composito e complesso, fatto non solo di parole traducibili, che l’autore vuole comunicare, a sé e agli altri.

intuiamo che dietro c’è qualcosa di grande, un significato, un linguaggio di cui non conosciamo il codice se non per brevi cenni e che forse non è neppure così importante conoscerlo del tutto: l’importante è sentirlo, vederlo: quei pochi appigli di parole e musica, di colore e di luce, ci portano oltre, forse molto più in là rispetto a un linguaggio convenzionale che potrebbe sì comunicare questo altrove, ma svelarlo in modo compromettente per il nostro assuefatto immaginario. Ergo, i suoi quadri dicono molto di più di quanto possiamo immaginare e comunicare. Questa è la percezione semantica. Un incipit di senso e intelligenza che non possiamo mai razionalizzare, ma seguire, con grande attenzione. Ed emozione.

A giorni le manderò bozze cartoncino d’invito, manifesto e altro.

Ecco, chiusa la corrispondenza con Matino potremmo dire che la percezione semantica è una percezione di senso non razionalizzabile, non convenzionata (anzi, se originale, non convenzionale e forse pure non convenzionabile), una percezione emotiva di senso, potremmo dire ancora meglio una percezione commotiva, che fa muovere insieme, autore e spettatore verso orizzonti e visioni non definitive.

Per chiudere, la percezione semantica si potrebbe decodificare come la percezione emotiva (e sottolineo la natura dell’emozione come di terreno primitivo del senso) di un codice personale, quello dell’autore. Percezione che – dopo avere passato a una a una le CARTE di Matino, abbagliati dalla ricerca e dalla bellezza compositiva – potrebbe portarci a fare un passo in più e dire che quella percezione diventa qualcosa di superiore alle nostre capacità soggettive, la percezione di un “codice emotivo” personale, unico e irripetibile come la persona audace, libera e coraggiosa che l’ha creato. <<

Segue in calce – tra i commenti – l’importante risposta di Vittorio Matino.

1 Comment

  1. Caro Alberto,

    Quando lei scrive a proposito della percezione musicale che “non sappiamo mai spiegare del tutto” trova, a mio parere, una chiave importante per accedere al mondo delle arti visive.

    “Mai spiegare del tutto” significa per me che non esistono spiegazioni esaustive perché rimane sempre la tensione verso l’inafferrabile che spinge a proseguire la ricerca. E se fosse proprio “l’inafferrabile” il cuore del problema? E il cuore stesso dell’arte? L’arte antica era, in un certo senso, nascosta sotto le righe, subliminale. Il soggetto, fortemente connotato e obbligatorio, poteva condizionare gli artisti, tuttavia, per dirla con Chillida, c’erano, si, le teste e le mani rappresentate, ma era il panneggio ad occupare la parte più importante dell’opera e in lui giaceva già la sorgente dell’arte non figurativa. La liberta è quindi da sempre una vocazione e una necessità per gli artisti in quanto permette di fare emergere “l’inafferrabile” del linguaggio pittorico, trasformando così l’artigianato in arte. Perché, in fondo, non importa “cosa” è rappresentato ma “come” viene rappresentato.

    Lei, Alberto, che ama la musica e la usa spesso come metafora, sa bene quanto l’esecuzione sia fondamentale. Vorrei dire, pensando per esempio a Pollock, che il “soggetto” stesso delle sue opere è proprio l’esecuzione. E aggiungo: cosa altro è l’arte se non la sublime qualità dell’esecuzione che materializza il significato tramite il colore?
    La mano, lasciata libera, diventa lo strumento sensibile del fare di cui il colore è la manifestazione. L’opera si rivela nel suo farsi e il senso -o il fallimento- lo si scopre solo ad opera compiuta.

    A mio parere tutto quello che in arte si decide a priori è molto pericoloso. Diffido così dall’atteggiamento dei concettuali che screditano l’opera per giustificare il narcisismo vuoto di “un’idea” ridotta spesso a una trovata, più che tesa ad esprimere un pensiero estetico. Il New Dada, nato da una costola del movimento Dadaista formatosi quasi un secolo fa, ha pervertito la creatività espressiva. La provocazione eversiva ma carica di significati, l’ironia corrosiva ma sempre propositiva dei padri fondatori, degli Tzara, Arp o Schwitters, è diventata una ridondante, noiosa e decadente accademia destinata a intrattenere un disincantato pubblico radical-chic.

    Se loro disprezzano la manualità, al punto di svuotarla di qualsiasi implicazione sensoriale, oppure di usare quella degli altri, come fa Boetti con i suoi ricami delocalizzati, io sono ancora d’accordo con Chillida che riteneva la mano una “banque des formes” e mi ostino ad usarla con piacere per esprimere una mia semantica del colore grazie alla tela e ai pennelli, convinto, tutte le volte che finisco un dipinto, di aver vissuto intensamente l’inesauribile linguaggio della pittura.

    Lasciamoci portare quindi in un’avventurosa libera e sensuale “percezione semantica del colore”, tutti assieme, chi fa e chi guarda, senza programmi a priori. Non preoccupiamoci se le ricette critiche, qualsiasi siano, sono state applicate correttamente anche perché di ricette che garantiscono il risultato non ce ne sono e di spiegazioni razionali a posteriori, molto poche, ma soprattutto non utili per una godibile e fruttuosa “percezione semantica del colore”. Attraversiamo la mostra come se fosse un concerto musicale e visivo. Le opere esposte sono nate da un’emozione, da un’esperienza cromatica e quest’esperienza vorrei semplicemente comunicarvela. La sintonia dipende solo da noi e può avvenire se ci liberiamo finalmente della gabbia inibitoria della “spiegazione” a tutti i costi.
    Vittorio Matino

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