VALBONA, VALBONA, CHE NON TORNERAI… | Cronaca di un abominio | la DISTRUZIONE DEL TERRITORIO e delle sue tracce più antiche nel VENETO contemporaneo

VALBONA, VALBONA, CHE NON TORNERAI…

di Michele Santuliana

«Meditate la tenebra e l’inverno
di questa valle percossa dal pianto».
Bertolt Brecht, coro finale dell’Opera da tre soldi 

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La Fontana di Valbona, scomparsa, divelta, distrutta, «spazzata via» dalle ruspe della Pedemontana il 26 aprile 2018

Sono arrivato in contrada verso metà pomeriggio. Il sole di giugno, ormai calante dietro il velo occidentale dei colli, colpiva di sbieco la valle, attraversando le chiome striminzite dei platani che in quel tratto di provinciale fanno da schermo alle concerie e segnano il tracciato color cenere della strada. Un tempo erano una fila compatta, possente; oggi si interrompono bruscamente nel punto in cui la superstrada a pagamento intercetterà, sovrastandola, l’antica via che conduce all’alta valle. Le radici e il legno duro del Platanus occidentalis nulla hanno potuto contro lame, pale, cingoli e altri strumenti del progresso umano. Così diversi alberi sono stati abbattuti per fare spazio all’opera, e il cantiere è avanzato inesorabile dal fondovalle, una metastasi che ha sventrato, spianato, coperto prati e scoperto discariche e che ora lambisce le case della Ghisa per fagocitare quanto resta dei campi. “Non torneranno i prati” ammonisce un cartello posto pochi chilometri più avanti, nel punto in cui il tracciato della grande opera torna ad incrociare, stavolta passandoci sotto, quello della provinciale. Lo leggo ogni mattina, quel cartello, e con me lo leggono altre migliaia di individui che si recano al lavoro. Sta lì, immobile, grido immane che si alza al cielo, perdendosi nel frastuono e nello smog. Lo leggo e penso alle profezie di Cassandra, antica sacerdotessa di Apollo, destinata a vedere il futuro ma non a essere ascoltata dai contemporanei, massacrata a tradimento per interessi altrui.

non torneranno i prati sr 142

Ho guardato l’orologio. Mi aspettavano per le quattro, meglio far presto.
L’aria era calda, intrisa di polvere. Prima di imboccare la nuova strada di accesso alla contrada, non ho potuto fare a meno di spingere lo sguardo fino alle due voragini nere che si aprono ai piedi del colle, sotto i Bernuffi, ingresso del tunnel che ha evitato il passaggio dell’opera sui terreni antistanti la Miteni. Sì, c’è anche lei lì. Come se il resto non bastasse.
Evitato il passaggio, i terreni sono stati opportunamente messi a fruttare: non più a frumento, come per anni avevo visto fare passando di lì per andare a scuola, a Valdagno; in luogo dei cereali sono cresciuti nove capannoni, un paio rimasti incompiuti, i restanti sette completati e dipinti di nero. Due portoni ciascuno, fra i portoni otto cipressi stipati in pochi metri di terra, con le spalle al muro, come davanti ad un plotone d’esecuzione. Cipressi, alberi cimiteriali. Ma qui non sono, come scriveva il poeta, alti e schietti; qui non vanno in duplice filar, qui stanno in gruppetti compatti; e qui gli alberi non parlano. Alcuni resistono coraggiosamente, altri svettano stecchiti dal caldo e dalla mancanza di spazio. E dietro resta il nero. Quando ho raccontato tutto ciò ad un amico da fuori regione non voleva crederci. Ho dovuto aprire Google earth, mostrargli dal cielo la terra in cui vivo. Allora, nonostante il programma non sia aggiornato con gli ultimi scempi, è rimasto in silenzio.
– Ma come fate? – ha chiesto poi.
In quel momento sono stato io a rimanere in silenzio.

federico_bevilacqua_22_aprile_2018_archivio_alberto_peruffo_ccc_052

Mentre svoltavo alla ricerca dell’antica strada di Valbona la polvere rossa alzata al mio passaggio mi ha costretto a chiudere i finestrini. L’occhio cercava segni noti, particolari fissati nella memoria, invano. I lavori hanno mutato quasi completamente la fisionomia della Valbona. Il tracciato della futura superstrada, i silos per il cemento, le strade di cantiere, un ponte di cemento e un fossato per l’acqua di scolo: tutto ciò ha reso i prati della contrada uno sbiadito ricordo. Lì, su un troncone della vecchia strada, sorge ancora il monumento ai partigiani che tanto mi affascinava quando, bambino, scendevo fino in Valbona attraverso i sentieri del bosco. Quel cippo ricorda Marziano e Sereno, due giovani della mia terra morti poco più che ventenni in uno scontro a fuoco con i tedeschi. Era il 26 aprile 1945. Di Marziano non so molto, mentre di Sereno so che era una promessa del mio paese. Impegnato in parrocchia, animatore instancabile dei giovani. Aveva il nome di battaglia di “Gigante”.

PASSANTE
INCHINATI E PREGA
ALLA MEMORIA
DEI MARTIRI

L’invito si scorge appena. Parole che sembrano di un altro mondo e che ho riletto con un groppo al cuore. Pochi giorni fa mi hanno convocato per comunicarmi che anche il monumento dovrà essere spostato. Esigenze di cantiere, hanno detto. Il cipresso che lo veglia non potrà essere salvato, se ne pianterà un altro. Esigenze di cantiere. Fiat voluntas tua, cantiere. Amen.
A pochi metri dalla lapide la nuova strada di accesso alla contrada sale passando sopra un cumulo di terra rossastra. Lì, dove ora sono asfalto e detriti, fino a poche settimane fa sorgeva l’antica fontana di Valbona. Una specie di scossa mi ha attraversato mentre superavo il punto in cui sorgeva la fonte. Sono qui per questo, dopotutto, anche se troppo tardi. La fontana infatti non esiste più: il 26 aprile 2018, settantatré anni esatti dopo l’uccisione di Sereno e Marziano, l’hanno spazzata via procedendo col cantiere. Nel silenzio e nell’indifferenza dei più. Penso a quel tempo lontano, alla dittatura, ai tedeschi, ai venti mesi di occupazione, ai lutti, a Sereno e Marziano, al sogno di un mondo diverso, nuovo, giusto, alla Liberazione, alla fontana, ad un dialogo a cui ho assistito nei giorni passati.

È accaduto inavvertitamente, hanno detto.
Non sapevano, hanno detto.
Non hanno visto, hanno ripetuto.
E poi non si capisce chi doveva controllare.
In effetti il manufatto sorge sul confine.
No, il confine è la strada.
La competenza è di un comune.
No, è dell’altro.
L’erba era alta.
La fontana non era stata segnalata.
Avevano detto che non sarebbe stata toccata.
Sicuramente, ad averlo saputo, si sarebbe salvata.
Il terreno è mio.
Il danno è fatto, ma si può rifare.
Sicuro, rifare.
Identica a prima?
Identica.

Ho superato il punto e mi sono tornate in mente parole studiate un tempo a scuola, un discorso pronunciato da un barbaro scozzese che nell’imminenza della battaglia decisiva descrive i Romani conquistatori. Sa che si combatterà per la libertà o si soccomberà agli invasori: «Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur; si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit; soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant» [Rapinatori del mondo, dopo aver devastato ogni cosa, non essendoci più terre, frugano il mare; se il nemico è ricco sono avidi, se è povero, pieni d’ambizione; loro, che né l’Oriente né l’Occidente potrebbero mai saziare, gli unici che bramano con pari veemenza di avere ricchezze e miseria. Rubare, massacrare, rapinare, con falso nome lo chiamano impero e là dove fanno il deserto la chiamano pace].
Altre parole sono seguite, quelle di una canzone scritta da un Maestro rimasto quasi solo a dire la sua contro un progresso scorsoio che sta divorando luoghi, memorie, persone. Ancora una volta, nell’indifferenza dei più, anestetizzati ogni giorno da schermi, promesse, chiacchiere e urla.

Torno torno a la fontana
dove i sassi sa le storie,
se gà perso le memorie
che racconta la contrà…

No, non più attorno alla fontana, non qui. Questa roba si spazza via. Trionfa un rigoglio banale e potente. Ho voltato lo sguardo verso il sole. Nessun avvenire in quella direzione, solo un passato dimenticato, soffocato da un inesorabile presente. In lontananza, nel cortile di una casa affacciata sulla provinciale, sventolava una bandiera arancione con il leone della Serenissima. Ho sorriso triste. Eccole, le nuove memorie.
Mi sono lasciato alle spalle il luogo del misfatto e ho proseguito lungo la stradina che lambisce i piedi del colle. Pochi metri e il cantiere scompare, ritorna l’antica carrareccia, tanto invasa dalla vegetazione che a tratti pare di procedere nel fitto del bosco. Sembra quasi che a fronte di tanto sfregio la natura si stia rivalendo dove può, come può, riprendendosi quanto le generazioni passate le avevano tolto con fatica.
Prima di arrivare dove mi attendevano ho gettato uno sguardo alla corte del Barba. Il Barba! Ormai chi lo ricorda più? Le sue cacce imperiali, col branco di cani che pareva uscito da un racconto di Čechov, le baruffe altrettanto poderose, il ritratto del duce sul camino, le sbornie, la povertà. E sua moglie? Chi si ricorda della Nela, a cui andavamo a cantare la stella e tanta impressione mi faceva per il gozzo sotto il mento… Cosa avrebbero detto di fronte al mostro di cemento e asfalto che sta distruggendo la loro Valbona? Ho scosso la testa. Nessuno mi ha risposto. La corte, intorno, un disastro: crollata la stalla, il cortile invaso dalle piante e dai rifiuti, i muri sbrecciati dal tempo.

Valbona, la valle buona, la valle dai campi fertili, è toponimo attestato sin dal 1206. Da un documento conservato presso l’archivio diocesano si apprende che l’allora titolare della Chiesa di Vicenza, il vescovo Uberto, al fine estinguere l’enorme debito in cui versava l’episcopato, ottenne dal patriarca di Aquileia di vendere ai canonici della cattedrale alcune proprietà vescovili, tra cui un lotto che, comprendendo i territori di Montemezzo, Monteviale e Gambugliano, proseguiva attraverso la valle e i colli «sino alla Valle Bona […] e dalla stessa Valle Bona risalendo per il Turrino sino a Bocca delle Mole» (A. Morsoletto, Signori e popolo nelle prime valli del Retrone nell’Età di Mezzo, in Sovizzo e le sue genti. Storia di un villaggio rurale alle sorgenti del Retrone, a cura di A. Dani, Edizione del Comune di Sovizzo, 1994). Altro nome per la contrada, tramandato dalle memorie orali, è Valbruna, probabilmente dall’antico germanico *Brunno, cioè “sorgente” (Luciano Chilese, Toponomastica di Montecchio Maggiore, Francisci Editore, 1988). La valle buona, la valle della sorgente. Ecco cos’era la Valbona. Del resto un tempo i paesi nascevano dove c’era l’acqua. E qui, fino a tempi recenti, l’acqua è sempre stata abbondante e pura. Poi sono arrivate le fabbriche di prodotti chimici, i pesticidi, ora la superstrada a pagamento pedemontana veneta. Un’opera assolutamente, inevitabilmente, totalmente indispensabile.

Il cancello si è aperto prima che avessi il tempo di suonare il campanello. Ho parcheggiato la macchina e i paesani sono usciti sulla soglia ad accogliermi. Marito e moglie, vivono in Valbona da sempre; sono ormai gli ultimi custodi delle memorie della contrada. Mi hanno dato il benvenuto con calore.
– Non ti si vede più molto in giro.
– Ho molto da fare, ora lavoro a Valdagno – ho risposto per schermirmi.
Ci siamo seduti in cucina, io ho raccontato un po’ di me, loro hanno fanno altrettanto, aggiornandomi su figli e nipoti.
– Siamo sempre qui. I giovani non hanno tempo di stare ad ascoltare le ciàcole sul passato.
– Non sono ciàcole – ho risposto. – E io ho tempo.
Poco dopo lui è uscito.
– Vi lascio, ho da fare nel campo dietro casa.
L’ho ringraziato e ho ricambiato il suo augurio di buona domenica. Quindi ho estratto il taccuino. Lei mi vede, sorride e inizia così, senza una vera domanda d’inizio da parte mia, rispondendo ad un desiderio antico. E le parole corrono mentre io tento di imprigionarne qualcuna sulla pagina.
– Quella fontana, mi diceva mio nonno, ha dato da bere a tutta la valle. Fin dalle Tezze venivano per l’acqua. Là avevano i pozzi ma d’estate, con la siccità, si seccavano; alla fontana invece l’acqua non è mai mancata. Arrivavano qui col carro e le vacche per prenderla, e le donne a lavare i panni. La campagna intorno poi era affittata ai Camerra: loro mettevano a disposizione un pezzo di terra e in molti scendevano dai Bernuffi per farsi l’orto e piantare le verze. Perché lì c’era l’acqua, a differenza di lassù. Quanti servizi ha reso quella fontana!
Io ascolto, prendo appunti, annuisco, talvolta chiedo una spiegazione. Lei risponde di buon grado.
– Lo sai, – prosegue – questa è stata la prima casa costruita in contrada. I nostri antenati erano pastori e qui avevano trovato l’acqua necessaria per il gregge quando scendevano dai monti. Così nel 1777 costruirono la casa, che è la più antica ed è sempre stata un punto di ristoro per i paesani che volevano salire al paese. Qui passavano tutti, quelli che venivano ogni tanto e quelli che tutti i giorni andavano a lavorare. Ricordi Santo Bosco? Lasciava sempre la bicicletta da noi quando tornava dal lavoro, prima di salire verso casa. Beveva un bicchiere di vino e poi via! Poi alla sera arrivavano i vicini e in corte si raccontava, talvolta fino a mezzanotte. Era bello allora, e l’acqua della fontana rinfrescava…
– Però negli ultimi anni era stata lasciata un po’ andare – ho detto timidamente.
– Sì, è vero. Si cominciò quando venne l’acqua in casa. Prima la vasca veniva pulita quasi ogni giorno da tutti coloro che ne usufruivano. Ricordo che c’era una vecchia scopa appoggiata al muretto. E oltre la fontana, a valle, c’era un piano lungo il fosso per lavare i pannolini sporchi dei bambini.
– E la leggenda? – le chiedo.
– Oh la leggenda l’ho sempre sentita. Mio nonno mi raccontava che c’era un villaggio tanti e tanti anni fa, e una chiesa col campanile. Un giorno venne una frana terribile e spazzò via tutto. Ma sotto la fontana era rimasto il campanile. Si vedeva sul fondo, dicevano i vecchi. E i contadini che andavano ad abbeverarsi alla fonte dicevano di sentire le campane… È un peccato che l’abbiano distrutta. Era la nostra fontana…

Il sole ormai sfiorava la linea dei colli occidentali, nella stanza la luce scemava.
– Grazie, – ho detto quando è rimasta in silenzio – qui ne ho per scrivere qualcosa. E casomai verrò ancora, se le fa piacere.
– Vieni quando vuoi. Siamo sempre qui. I miei nipoti non hanno tempo di stare ad ascoltarmi.
Siamo usciti in cortile. Gli ultimi raggi inquadravano la contrada tingendo muri, alberi e persone di raggi color dell’ambra. Ho ringraziato un’ultima volta per l’ospitalità e ho salutato con un “Arrivederci”. Poi sono andato via. Sulla Valbona calava la sera.

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alberto_peruffo_CC
ANTERSASS CASA EDITRICE | Montecchio Maggiore | VI
15 GIUGNO 2018

NOTA EDITORIALE
Il testo è di Michele Santuliana, scrittore e docente di lettere, montecchiano, abitante sul Colle di Sant’Urbano, sopra la Valbona. Le foto sono dell’Archivio CCC. “Non torneranno i prati” è di Alberto Peruffo. Quelle a colori, in Valbona, sono state scattate da Giampietro Peretti, lavorate e rilanciate in rete da AP, poco dopo l’abominio. Quella in B/N è di Federico Bevilacqua scattata il 22 aprile durante la Giornata contro i Crimini Ambientali.

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