
Ho letto il libro di Vitaliano.
That’s all folks.
Il resto è lavoro.
Scriverei semplicemente questo. Nelle mie vesti di libraio-volante, la mia non-professione [1] che è anche un lavoro e mi dà in qualche modo da vivere.
Se fossi un critico letterario, direi qualcosa di più. È un libro coraggioso. Molto. Io che evito gli scrittori-scrittori, quella categoria inventata dal mercato per produrre libri o dagli uomini libreschi per sentirsi realizzati, il libro di Trevisan si pone nella scia dei pochi scrittori che scrivono per disperazione o per esaltazione. Non vedo altre vie. E neppure le cerco. Questa è la disperazione. Anche etimologicamente. Mentre l’esaltazione, le altezze raggiunte o raggiungibili, dalle quali il rischio di cadere è sempre latente, anche se non sempre sono elevate, ma quanto basta come il tetto di un capannone, essa si sposa straordinariamente con ciò che la scrittura può significare quando diventa preziosa e alta testimonianza. Geo-grafia, direi io. Evocazione e contronarrazione direbbe forse Vitaliano. Ossia, contro la comunicazione. Segno di un percorso – autentico (da qui la parola autore) – fatto sulla terra/Terra. Piaccia o non piaccia. E che perciò niente ha a che vedere con il comunicare.
Non si vive per comunicare.

Tanto meno per lavorare. A volte per condividere. Vitaliano è tra i pochissimi scrittori geografici (vedasi qui cosa intendo per “scrittura geografica” e – lateralmente – nell’immagine a lato) che io abbia avuto la fortuna di leggere e di conoscere personalmente. E il suo percorso, il suo lavoro, spaventa, tanto è sulla linea. Indivisa. Geometrica: che misura i passi sulla terra. Geografica: che porta il corpo, ferito o feribile, sulla strada. Una geografia non della natura, ma dell’urbe, dei suoi lati periferici e dei suoi spazi residuali. Tra terzo e quarto paesaggio, per citare Gilles Clément e l’autore stesso (WORKS, Einaudi 2016, pp. 574-580). Un percorso sulla lama del rasoio che può far scoppiare la vena.
Ho letto con inquietudine gran parte del libro, tanto quella vena su cui è appoggiato il rasoio attraversa la mia terra, le mie conoscenze personali, Vitaliano stesso, i paesaggi, le situazioni. Un pericoloso equilibrio che la scrittura di Vitaliano trasfigura in voce disarmante, metallica, violenta. Dolce solo per avere un po’ di respiro o per trovare la strada di casa o la parola benefica di qualche compagno. Sì. Lo sguardo antropologico, o forse meglio, antropofago [2], di WORKS, vale molto di più di ciò che la cultura istituzionale ci trastulla davanti, cieca della sua stessa architettura. Anzi, architetture. Al plurale. In tutti i sensi. Di pensiero e di costruzioni. Ho sempre pensato che l’architettura, in senso stretto, cioè le costruzioni che vediamo lungo le strade, sia/siano il primo indizio di una civiltà. O inciviltà. Di un pensiero. Per questo ringrazio Vitaliano. Perché questo mi aiuterà. Ci aiuterà.

Ci aiuterà. Per fare cosa? Niente di certo, direi. Ma per vedere meglio. E se si vede meglio, si agisce meglio. Su tutti i fronti. Anche quelli più nebbiosi e periferici della Double s 11, lato Vicenza ovest, dove io vivo e sono nato. Dove diversi amici ho visto sparire. Annientati. Nel buio. Sono rarissimi i libri di questo tipo. Negli ultimi 5 anni – io che divoro e brucio libri (v. Op. cit. p. 586-587) anche per la mia non-professione – ne ho letto solo un altro. Di letteratura. Alta. La casa e il vento di Héctor Tizón (Gorée 2006). Un dramma quando stai percependo la fine del libro. Sai che vivrai in astinenza per un periodo indefinito. Una droga per la mente complessa.
Se fossi uno storico, prenderei invece spunto da una considerazione che Pietro Calamandrei scrisse a Cesare Pavese, nel 1950, dopo aver letto La luna e i falò. Nella mente del celebre giurista toscano riaffiorò lo spettro del disimpegno politico che lo aveva assalito subito dopo l’8 settembre del 1943. Scrive Calamandrei: «di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni fra arte e cultura non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo, toccano sempre le ferite della società» [3]. Gli artisti veri. Le ferite delle società. Considerazione ripresa nel libro di Raffaele Liucci SPETTATORI DI UN NAUFRAGIO. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale (p. 9, Einaudi 2011). Ecco, per certi versi Vitaliano è uno spettatore del naufragio del Nordest, ma soprattutto di se stesso, a prescindere dal territorio sbagliato e perverso in cui si è nati (io e lui): nella misera Vicenza “zoniniana” – neologismo che propongo di usare per classificare l’epoca di WORKS dominata dalla figura del banchiere Zonin, oggi ancora più popolare della sua banca “impopolare”.
A prescindere. Perché nascere è già un naufragare [4].

Se fossi un amico – forse lo sono o lo ero o lo sarò o non la sarò mai più (la scrittura è sempre un pericolo per le relazioni) – avrei paura di Vitaliano. Gli sarei contro. Ma anche no. In ogni caso, gli stringerei forte la mano come il lattoniere di pagina 390. E gli direi di passare per verificare se le grondaie del mio fragile edificio – la libreria ove raccolgo come un distillatore di pensieri le materie plurime dei vari pensatori, somatizzando le scorie – se esse grondaie – grondanti – tengono botta. Così da dirgli grazie a quattrocchi. E gli ricorderei di passare ogni tanto da me. Anche se sono stato un cattivo compagno. Imprigionato da un cristallo di roccia. Poiché non tengo mai i piedi “a meno dieci alle due” (Op. cit. p. 321; in questo minuscolo idiotismo spaziotemporale, capovolto, la cifra dell’eccezionalità dell’autore). Sì, Vitaliano, qualche work possiamo ancora inventarcelo, ora che ho deciso che non lavorerò più neppure per vivere, ma solo per sopravvivere. Qualcosa si può sempre trovare per toglierci di dosso tutti quelli che credono che WORKS and consequences siano semplici opere di scrittura. Di cui l’autore non è l’autore.
In un paese-Paese gelatinoso (Op.cit. – non ricordo dove) come il nostro, tutto è possibile.
Qui da me.
A due passi dalla SS 11.
Alberto Peruffo
Montecchio Maggiore, 21 giugno 2016.
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1. Come tutti i miei lavori, passioni, attitudini, mi fermo sempre un passo prima che ciascuno di questi o di quelle diventino una “professione”. Di fede.
2. Che a me ricorda “Il tessuto urbano fagocita il tessuto umano”, vedasi The Wandering Cemetery (prima pagina web, 2007) e Centanni a Nordest, Wu Ming 1 (pag. 9, Rizzoli 2015).
3. P. Calamandrei a C. Pavese, Marina di Poveromo, 14 agosto 1950.
4. L’etimologia di “naufragio” è affascinante, sia per l’oggetto (il modello sociale) sia per il soggetto (l’involucro personale). Una nave che si frange. Navis-fragium. A Nordest o a Nordovest, poco importa. Amen.
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