«GUARDATE! E BEVETENE TUTTI» MITENI ABBANDONATA A SE STESSA [POSCOLA, TERA DEL ME CORPO, CHE PIANZE]

«GUARDATE! E BEVETENE TUTTI»
MITENI ABBANDONATA A SE STESSA
[POSCOLA, TERA DEL ME CORPO, CHE PIANZE]


Domenica 7 febbraio 2021, ad querelandum
[tutto vero, vedi foto e video]

La serena inquietudine del territorio. Queste sono le foto di una domenica piovosa passata alla ricerca di un barlume di speranza, lungo la Poscola, tratto Miteni-Ghisa. Qui la speranza è stata uccisa. Come la memoria calpestata. Inizio il mio giro dalla lapide divelta/spostata dei Partigiani di Montecchio, in Valbona, ai confini con il Comune di Trissino. Valle completamente distrutta, come la sua fontana, origine del più antico toponimo di tutta la nostra comunità parlante. 1200 d.c. (vedi Toponomastica MM di L. Chilese). ———- Bypassando la valle distrutta, a mezza costa, attraverso contrade fantasmagoriche in cui aleggia l’aria fetida delle sottostanti concerie Mastrotto, dal cui tergo spingono fetori le bianche cisterne del depuratore di Trissino, ma soprattutto emerge il cantiere che ha violato tutto, ogni minimo buon senso. Quello della Superstrada Pedemontana Veneta, responsabile della fontana e della lapide oltraggiate con il consenso – o meglio l’indifferenza, che è peggio – dei sindaci del territorio. VENDO. ———- D’un tratto, colto da inattesa meraviglia “semantica”, di segni, nel mezzo del bosco, trovo stampigliato a caratteri cubitali quello che sembra essere il mantra primigenio di questa parte di Veneto: VENDO… vendo tutto, dopo aver costruito lo scheletro di me stesso, abusivamente, o quasi, sopra una valle che non è neppure di lacrime. Vendo, sperando di fare soldi anche con la merda. Perché qui la chimica trasforma in oro ogni cosa, pure il liquame. E se non trasforma, impermeabilizza, respinge tutto, perfino le lacrime. Le lacrime della gente che muore per tumore o per altri indicibili patologie. Siamo nel cuore della percolazione perenne. ———- A più di due anni e tre mesi dal fallimento della Miteni, il mostro è ancora in piedi, arrugginito, ma in piedi. Sputa la sua schifezza con due rigurgiti che fanno rivoltare lo stomaco. Quello diretto che esce dal ventre della fabbrica. Quello liminale, del limine, del limite PFAS osannato e mai raggiunto dai falliti controllori di questa immonda schifezza. Sono di fronte allo scolo di cemento della rinnegata barriera idraulica. Mi avvicino e li filmo, i rigurgiti, per mostrarli ai miei figli, che ho lasciato a casa. ———- Voglio che vedano, ma non che respirino, quello che respiro io. Voglio sottrarli allo sfregio estremo del vomito industriale che qui parla, gorgheggia, sussurra parole di stupore e comprensione. Mi domando: come fanno il governatore Zaia e l’assessore Bottacin a guardare in faccia gli abitanti di questi luoghi? Dove trovano il coraggio, la dignità? Dispero per loro, seduti ignari presso i banchi asettici della Protezione Civile di Marghera. ———- Sono passati quasi mille giorni dal fallimento. La fabbrica che percola la recidiva merda chimica [respiro] grazie all’ignavia della Regione Veneto [respiro] difficile dire il contrario, avendola davanti al naso, ora, e dal 1977 [respiro] è ancora lì. Il vomito monta. Cerco un rimedio. ———- Esploro il letto della Poscola. La fabbrica incombe, a destra e a manca. E il vomito assale. Mi frugo le tasche per estrarre in extremis l’anticorpo di questa oltranza esplorativa. Scartabello, con cura, una busta verde che ha lo stesso colore del vomito: la notifica penale fattami arrivare da Bottacin, da un “nostro” avvocato della Regione Veneto, poche settimane fa, l’antivigilia di Natale, nel mentre la povera gente era chiusa in casa, a chiave, causa covid. ———- È una specie di premio honoris causa – ad querelandum – uscito dalla Radio Nazionale. Quel foglio è salutare: con esso tra le mani ricostruisco la geografia alimentare del mio attacco di vomito. Articolo la mia cognizione. Ricostruisco la georeferenza di me stesso. Perché sono quello che vedo e che sento. Sono quello che articolo con ogni mio passo. Sono dove nessuno è mai stato, della politica infame. Ora posso risalire alla fonte. [grande silenzio, prima di iniziare la risalita] ———- Risalgo a fatica – nonostante gli 8000 metri – la costa del Monte Spiado. Appena un centinaio di metri sopra il livello del mare. Liquamoso. Che fin qui spinge i suoi reflui. Un mare di immondizia. Fisica e morale. Non scherzo. Poco sopra la Miteni, in corrispondenza dei filtri blu a carboni attivi mai visti dall’Arpav, che si vedono addirittura dal bosco, anche se hai bevuto, affiorano discariche abusive tardovenete, quasi fossero resti archeologici di un’antica nobile civiltà. Ma non lo sono. ———- Sto camminando tra lavatrici e bottiglie di London Gin e Red Label Whisky: cose anglosassone, anglofone, para-americane, forse per dimenticare il leone di vetroresina che hanno installato – sempre visibile dal colle della Miteni – per monumentalizzare la propria follia. Per lavarsi la coscienza in una centrifuga di autocelebrazione. E mettersi al ludibrio della rotatoria del delirio. Del collirio. Siamo tra Montecchio il Maggiore e Trissino il minore, Arzignano la peggiore, dove 500 chili di cocaina – e rapimenti remoti – alimentano le macchine utensili delle concerie. ———- Raggiunta la cima del monte, non riesco a riveder le stelle. Proprio non le vedo. Davvero. Le cerco, con tutta la bontà del mondo. Ma la selva da dove sono uscito non perdona. Rinnega il facile perdono della chiesa, e anche l’inferno. Dante qui si sarebbe suicidato. La sua toscana magniloquenza sarebbe fallita d’emblée nel trovare un angolino dignitoso per la plastificata nuova razza di veneti, che parla a spanne, che mistifica le radici. Qui hanno violentato lengua e simboli, parole e persone, imbevendole di sostanze perfluoroalchiliche, sottraendole per sempre al ritmo della poesia! Qui, quello che manca, è semplicemente questo: il più piccolo esile fioco barlume di poesia. Perciò, fuori pure dall’inferno! Restate nella vostra falsa Valle Bona, il Veneto dei Primi. Restateci anche da morti. [breve silenzio] ———- Abbandono il Monte Spiado – dove si fermò il brigante Bernuffo (forse un mio avo, il cognome è molto simile) – e scendo di nuovo sulla Poscola, in prossimità della Ghisa. Mi sono promesso di andare a vedere. Di andare a toccare. Di piegarmi in ginocchio, se necessario. Anche se dovessi affrontare l’inclemenza melmosa del tempo. [grande silenzio] ———- Lungo la statale mortifera che affianca la Poscola, dai pressi di un improvviso vivaio che non so se sia meglio chiamarlo mortaio – tanta è nera l’acqua morta della Poscola che qui sfiora l’erba verde della vita – all’altezza dell’inquietante ex Caserma militare, ho visto ciò che il poeta Ernesto Calzavara – l’avvocato senza patria e senza padri – chiamava la «Tera del me corpo». Sì, l’ho visto. Devo andare a vedere. A toccare. E, se vero, mettermi in ginocchio. ———- Ho visto [grande sospensione] … la terra piangere, la terra piangere dal fondo della Poscola e alzare le sue alte braccia al cielo. Una visione senza precedenti. Un miracolo di postura. L’ultima poesia. [grande silenzio] Un populus secolare, capitozzato, anglicizzato. Ma che parla. Così sono sceso camminando a passi alti e lenti sopra il fango. ———- La pioggia cadeva e la Poscola parlava. Avanzavo, vedevo avvicinarsi misterioso il mio obiettivo, come nelle estasi catartiche che ti prendono quando esci dalle pareti glaciali dei monti sommi e vedi la cima davanti a te, raggiungibile. Dunque, dal Monte Spiado… sono giunto ai suoi piedi. L’ho toccato. Sembrava davvero che parlasse. Quella grande reliquia di albero. Più loquace e più reale delle madonne di Monte Berico. Mi sono inginocchiato. Davvero. ———- Sono rimasto nel massimo mio silenzio. Per lunghi solidi minuti. Devastato dal mio cammino. Appoggiando leggermente le dita sulla sua pelle. Dura. Ma viva. Poi, rincuorato da tanto ardore – chi mai attraversa il fango della propria terra (resa anonima) in cerca del pulsare di una corteccia, del battito di una radice? – mi sono alzato in piedi e mi sono girato verso nord, dove percola il consenso-assenso, il silenzio dell’indifferenza. Ho solo detto: «che la terra sia con voi». Quindi, senza riserve, sono tornato da dove son venuto. Camminando nel fango. Tra le pieghe di un valle che un tempo fu detta bona. E ora non lo è più.

ap
Montecchio Maggiore
12 febbraio 2021

alberto_peruffo_CC

ANTERSASS CASA EDITRICE

[didascalie delle foto e video degli scarichi MITENI qui]

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