CCCyberLink >> Lettera dall’Himalaya | Bellezza e libertà da riversare su VICENZA MILITARE

Riportiamo alcuni passi della Lettera pubblicata da La Nuova Vicenza e che sta avendo molte condivisioni in rete.

Natura vegetale al Campo Base Operativo in uno scatto artistico di Enrico Ferri
Natura vegetale al Campo Base Operativo in uno scatto artistico di Enrico Ferri

Noi siamo un’armata di fantasmi che assediamo
l’inaccessibile.
Schopenhauer (1788-1860)

Caro Direttore,

sono tornato. E come promesso dopo il nostro NON RINUNCIAMO ALLA NOSTRA FORZA, grande serata con Luisa Muraro, ti scrivo un breve resoconto. Ma soprattutto ti allego una serie di fotografie che illustrano parte della nostra straordinaria avventura esplorativa in Himalaya, ai piedi del Kanchenzonga, 8586 m, la terza montagna della Terra. Dico straordinaria perché mai termine è stato usato da me in modo più proprio. Tra le mie sei spedizioni extraeuropee quest’ultima è stata senza dubbio la più difficile e affascinante. Sotto tutti i punti di vista. Che sono tanti e non mi dilungherò qui a raccontarli e se ci sarà occasione – come nelle serate pubbliche e nel film-libro che stiamo preparando – cercherò di spiegarli agli amici curiosi.

Un fatto è certo. Nonostante l’inaccessibilità della Cresta Zemu da sud, abbiamo salito 7 cime vergini e raggiunto 7 colli di alta quota, esplorando 3 ghiacciai, 2 dei quali integralmente, mai toccati da piede umano, attraversando una foresta tropicale impenetrabile e molto pericolosa, che ci isolava dal mondo. Proprio questa foresta e l’inaccessibilità dei luoghi sono stati i presupposti per portare a termine una delle più importanti spedizioni himalayane degli ultimi anni. Anzi, in India  e in Sikkim, gli esploratori himalayani esperti di questi luoghi remoti e inaccessibili, dicono che in epoca moderna mai nessuno si era spinto così oltre nell’esplorazione delle ultime selvagge zone himalayane, attraversando una foresta che per secoli aveva tenuto distante ogni ambizione esplorativa. Nove giorni di cammino dentro e fuori da una gola vegetale che neppure i docufilm più avventurosi possono “realmente” immaginare e documentare.

Tuttavia non solo l’aspetto geografico-alpinistico ha reso questa spedizione straordinaria, ma soprattutto l’approccio culturale, che ci ha permesso di tessere relazioni umane e diplomatiche di grande soddisfazione e conseguenze; dai funzionari del governo indiano che per la prima volta hanno dato fiducia a qualcuno per entrare in quella zona per fini esplorativi, zona considerata sacra dalle popolazioni del luogo e strategica per la prossimità con il Nepal e il Tibet; al Console Generale Italiano di Calcutta, che grazie alla nostra forte spinta esplorativa-culturale ha iniziato i colloqui ufficiali con il Sikkim; fino alla gente locale, con l’apoteosi “culturale” il giorno che siamo stati accolti al Namgyal Institute of Tibetology di Gangtok, dove ci sono state aperte le stanze riservate che custodiscono una delle biblioteche più preziose del mondo. Qui ho consegnato importanti documenti di lavoro su Fosco Maraini, che visitò il Sikkim nel 1937, e ho mostrato per la prima volta tutte le foto che corredano questo articolo, riportando la nostra testimonianza sul tempio-eremo di Guru Rinpoche per una futura ricerca documentaristica della troupe etnografica del Namgyal. Questo istituto-museo rappresenta il più importante “deposito” culturale della civiltà Tibetana, conservando nelle sue stanze i più antichi testi sacri sfuggiti all’ecatombe culturale causata dall’invasione cinese del 1959.

Nel 1956 il giovanissimo Dalai Lama – così mi ha raccontato a viva voce l’antropologa bulgaro-sikkimese Anna Balikci Denjongpa – paventando l’imminente invasione cinese, elaborò un piano segreto di “evasione culturale” dei libri fondamentali della cultura tibetana e mediante un treno blindato creò il più importante esodo culturale di manoscritti che la storia contemporanea ricordi, lasciando di stucco gli aggressori cinesi, che nel loro furore incendiario avevano creduto di aver cancellato ogni traccia delle antiche scritture tibetane. L’eccidio culturale del Tibet continua in questi giorni e non dobbiamo dimenticarlo. Come, sotto altre forme, non dobbiamo dimenticare il sopruso delle culture locali schiacciate dagli eccessi globali, la violenza sui diritti delle cittadinanze, fatto che Vicenza ha vissuto in prima persona mediante l’imposizione della nuova base militare. Una violazione non solo costituzionale – tramite sotterfugi di vario genere, tra cui il più grave resta il trasferimento dell’extraterritorialità ad un territorio che non ha nessuna adiacenza con la vecchia base: un vero e proprio insulto all’intelligenza che attesta il grado si sonnolenza e di connivenza della nostra classe politica – ma pure una violazione della vocazione culturale di una città Patrimonio Unesco. Una città che non merita questa egida, a meno che non avvenga una totale inversione di rotta. Una conversione dei suoi errori. Senza alcuna ipocrita compensazione.

Per questo voglio sottoporvi queste foto. Di fronte a tanta bellezza e libertà, accompagnato da un team eccezionale, per quanto paradossale possa sembrare a quelle altitudini, mi sono caricato di ossigeno. Di forza. E ora questa esperienza non solo la condividerò con gli amici. Ma ricomincerò a lottare più forte di prima per le cause in cui credo: in primis, liberare Vicenza dall’accerchiamento militare e dall’ammorbamento politico che ha portato a questo. Certo, non ho molti mezzi. Le mie armi sono l’arte, la cultura, le parole. Ma sono armi potenti e se tu  – Direttore – mi darai una mano a portarle qualche volta fuori, te ne sarò grato.

Chiudo citando Milarepa e declinandolo a Vicenza.

Attraversare montagne selvagge è una via alla liberazione – diceva il grande poeta e maestro tibetano vissuto in prossimità dell’anno 1000 tra le stesse montagne da cui torno.

Ma non c’è autentica libertà se quando cammini per le strade della tua città – consapevole degli alti passi himalayani che hai avuto il privilegio di valicare – dimentichi i principi della civiltà in cui hai scelto di vivere e in parte di costruire. E che ti ha permesso di affrontare quelle remote montagne.

Ecco, camminare per le strade di Vicenza, non ci si sente liberati.

Anzi, ci si sente derubati dei principi per cui i nostri padri e i nostri nonni hanno combattuto negli anni della Liberazione. Così mi confidò pure Mario Rigoni Stern.

Dirò di più, per debellare ogni sentimento di antiamericanismo, sentimento appositamente costruito dai mercificatori del bene comune; dirò che gli Americani che hanno combattuto per la “liberazione” dal nazi-fascismo contravvengono ai loro stessi tanto conclamati principi. Conclamare differisce da proclamare, specie se alle parole non seguono i fatti. Ne conviene che da anni si evita cautamente questa evidenza: gli Americani nel 1945 ci liberarono dalle stesse persone e dallo stesso pensiero che hanno voluto e costruito quell’orrido mostro chiamato ora Del Din. Sottolineo: nell’inganno dei nomi e delle parole si riconoscono e si nascondono le colpe e i misfatti. La dittatura e la barbarie prendono oggi altre forme ed entrano nelle fila degli eserciti che una volta furono eserciti di liberazione.

Non rinunciamo perciò alla nostra forza – il nostro mantra preso dalla mia concittadina Muraro – e ritorniamo a sollevare la questione Dal Molin.

Non bisogna abbassare la guardia e vivere sottomessi.

Bisogna alzare la testa, avere nuove visioni.

L’inaccessibile va sempre affrontato.

Anche il filo spinato di un’ingiusta base militare.
Portatrice di morte e di sporchi denari.

Questo coraggio e queste visioni ci consegna l’alta montagna.

E questo io consegno a voi.

A presto e buone cose.

Alberto Peruffo

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