Si è conclusa con un duplice evento espositivo, alla Nuova Galleria Civica di Montecchio Maggiore e alla Galleria Civica di Villa Valle di Valdagno, l’operazione culturale iniziata con la pubblicazione del libro dedicato a Giuliano Menato Far conoscere l’arte. 50 anni di attività critica.
Per la cura dello stesso Menato, con Luigi Borgo e Diego Zattera, è stata presentata al pubblico la collezione d’arte del professore, costituita di opere di pittura e grafica, donate dagli artisti in occasione delle mostre da lui curate nel lungo arco di tempo. Il significato delle due esposizioni va oltre il valore delle opere e il prestigio degli autori, testimonia l’impegno culturale di Menato al servizio delle istituzioni vicentine. Un continuo intreccio di arte e vita sottende entrambi i percorsi, con richiami alle vicende culturali del nostro territorio e alle personalità che lo hanno illustrato.
La Galleria di Montecchio ospita le opere degli artisti figurativi, ordinate in successione cronologica e per area geografica. La mostra si apre nel solco della tradizione con il bel Ritratto di Nerea (1925) di Francesco Noro. Della figlia Nerina sono i magnifici ritratti degli anni ’40 e ’50 e l’affresco La puerpera (1948) di rara forza evocativa. Di Bruno Saetti è un Paesaggio con sole (1972) e di Virgilio Guidi un Incontro (1965), entrambi maestri all’Accademia veneziana. Chiara è l’appartenenza veneta delle ariose Marine (1951) del rodigino Angelo Prudenziato e della raffinata Natura morta del veronese Pio Semeghini. Vicentini sono Pier Angelo Stefani e il suo allievo Otello e Maria autori, rispettivamente, di un verde Paesaggio cadorino e di uno sfatto Vaso di fiori secchi.
Nutrita è anche la rappresentanza degli incisori veneti. Giovanni Barbisan, Neri Pozza, Ernesto Lomazzi certificano l’eccellenza dell’incisione veneta, tecnica difficile e sofisticata, che richiede severa applicazione. Le Stagioni di Barbisan, rese con segno impercettibile, ricreano atmosfere di altri tempi, quando la natura offriva spettacoli incomparabili. Le Vedute di Vicenza di Pozza ridisegnano un luogo ideale e metafisico, il segno smaterializza una città di architetture. I fogli per Il Cile di Lomazzi rievocano, con tratti decisi e taglienti, i tragici eventi del Cile, suscitando profonde emozioni.
Menato deve amare molto l’incisione se, passando all’area lombarda e a quella romana, il visitatore si imbatte in altri straordinari acquafortisti. Con un’infinità di piccoli segni, tracciati con certosina pazienza, Ferroni cerca appassionatamente la luce, motivo di speranza per chi vive la solitudine dell’artista. Carrera tratteggia con ossessivo accanimento la figura femminile, oggetto di oniriche immaginazioni. Vespignani dà un saggio di suprema perizia riprendendo una squallida periferia romana, di pasoliniana memoria, e ispirandosi ai Canti di Leopardi per dire che anche gli animali sono vittime della natura matrigna. All’area romana appartengono due artisti molto diversi : Mario Schifano e Alberto Sughi. Il primo, esponente delle pop art, presenta una Televisione degli anni Settanta, il secondo, appartenente al realismo esistenziale, riprende gli amanti sullo sfondo di un infuocato tramonto romano. Del napoletano Gabriele Mattera è uno dei suoi famosi Uomini rossi, figure baluginanti di luce trascolorante.
Ritornando ai veneti, oltre ai paesaggi di Silvano Girardello, Romano Lotto, Mario Albanese, Renzo Pagliarusco, si potevano ammirare le opere di due grandi pittori veneziani. Alberto Gianquinto evoca con pennellata sfatta scene di serena vita famigliare, e lo fa con lirica trepidazione. Zotti si identifica con i personaggi del mito, e lo fa con mediterranea solarità. Una deserta Spiaggia viareggina di Sandro Luporini fissa momenti di assorta contemplazione, mentre un bel disegno a matita di Aligi Sassu rievoca un incontro memorabile, come tanti altri, di Menato con l’illustre pittore sardo.
Le opere astratte esposte alla Galleria Civica di Valdagno sono ordinate in modo da indicare l’appartenenza degli autori a movimenti che hanno segnato il Novecento italiano. Per questo sono didatticamente più interessanti. All’area veneta appartengono alcuni maestri dell’astrattismo come Bice Lazzari, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, che rimandano alle Biennali Veneziane con il Fronte Nuovo delle Arti (1948) e il Gruppo degli Otto (1952). L’astrattismo segnico della Lazzari si confronta con le trasparenze lagunari di Santomaso e le forme materiche di Turcato. Della generazione seguente sono i più noti Ricardo Licata e Ennio Finzi – il primo con un quadro esposto alla Biennale (1960), il secondo con pitture optical degli anni Settanta –, ma anche i vicentini Franco Meneguzzo, Angiolo Montagna, che vissero le esperienze del Premio Marzotto e della Scuola di Pittura valdagnese. Degli anni Settanta sono le opere dei due caposcuola trentini Aldo Schmid e Luigi Senesi, morti prematuramente, i cui titoli Spazio-Colore, Interferenza-trasparenza sono indicativi delle rigorose ricerche da loro compiute sui fenomeni del colore-luce. Vittorio Matino è una delle più accreditate figure dell’astrattismo italiano. Fedele all’impiego dei mezzi tradizionali della pittura, fa del colore, inteso come pura energia luminosa, l’elemento centrale della sua poetica. Luigi Veronesi è un rappresentante storico dell’astrattismo lombardo, autore di un bell’acquerello del 1988. Catturano l’occhio le brillanti cromie dei cerchi dubbiosi di Eugenio Carmi mentre Carlo Nangeroni gioca sulla trasparenza di figure geometriche, ancora soprattutto il cerchio, che balugina all’interno di ordinate scacchiere. Informale materico, uno degli ultimi naturalisti, secondo Francesco Arcangeli, è Piero Giunni : Profondo blu (1982), Ombre verdi (1982), Campo d’inverno (1994) sono felici esempi di bella pittura. Arturo Carmassi con uno splendido quadro del periodo informale Le Apuane (1959) espone alcune tecniche miste di un intenso blu marino. Ricordo di una memorabile antologica di Emilio Scanavino in questa Galleria (1984) è un olio intitolato Avvenimento (1984), che l’artista volle dedicarmi “con affetto”. La pittura aniconica allinea autorevoli esponenti, già presenti nel territorio con importanti mostre : Valentino Vago, Mario Raciti, Claudio Olivieri, Vincenzo Satta. Nomi, questi, che hanno segnato una stagione della pittura italiana. Il loro insegnamento fu accolto dalla più giovane generazione di Mauro Cappelletti, Gianni Pellegrini, Domenico D’Oora, Sonia Costantini, Franco Ruaro, riuniti in una grande parete coloratissima. Un posto a sé ha Agostino Bonalumi, autore di una delle sue famose estroflessioni del 1996. All’area romana appartengono i rappresentanti storici di Forma 1. Achille Perilli e Piero Dorazio rinviano alle rispettive antologiche di Trissino del 1977 e 1981. Ai Riflessi, la mattina (1985) di Antonio Corpora, presentati a Trissino, si accompagnano Alba sulle Langhe (1982) e luminosi acquerelli. Toti Scialoja e Guido Strazza sono maestri che hanno fatto la storia del secondo Novecento. Strazza, grandissimo incisore, è presente invece con uno scintillante Cosmate (1984) e una grande tempera e graffito (2006). Laura Stocco, Manlio Onorato, Riccardo Curti sono le uniche voci dell’astrattismo vicentino.
Redazione Casa di Cultura C
ANTERSASS CASA EDITRICE | Montecchio Maggiore | VI
18 AGOSTO 2021
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GALLERIA DELLE DUE MOSTRE DI MONTECCHIO E VALDAGNO
































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[il testo del “terribile nipote” tratto dal libro-catalogo]
RICORDO UN GIORNO, SUL FRONTE DELLA CULTURA
di Alberto Peruffo
Ricordo un giorno, seduto sul dondolo di casa mia, in Corso Matteotti. Quando ancora si affacciava sulla vecchia via del paese, al tempo in cui poche automobili passavano e ci divertivamo, bambini, a segnare le targhe in un blocco notes. Siamo a metà della anni 70. Anni caldi, turbolenti, di cui noi giovani d’allora poco sappiamo e ricordiamo. Per non dire i giovani che sono venuti dopo di noi. Fu messa in atto una vera e propria strategia di rimozione della memoria per cancellare la grande carica di ribellione e innovazione, specie sul fronte del pensiero e della cultura, che quell’epoca portava con sé. Ma ho un ricordo, che mi riporta a quel tempo e che forse potrà far capire quanto importante sia per un giovane un appiglio, un’apertura, una consegna di immaginario di cui i “benefici collaterali” – per usare l’espressione di una grande attivista americana di quegli anni – mai sapremo e che forse oggi alimentano la nostra azione molto di più di quanto riusciamo a comprendere nel vorticoso tempo che viviamo. Intensamente.
Oggi, a 52 anni, posso tracciare quel filo sottile e dipanarlo in forma di un grande grazie al protagonista di questo ricordo, Giuliano Menato, che compie 80 anni in questi giorni e che per il nostro paese, pagense, «cippo di confine fissato in terra», Montecchio Maggiore, è un’istituzione culturale vivente. E qui il significato di “istituzione” va colto nel suo significato più umano, di ciò o colui che istituisce un percorso, coerente, luminoso, grazie alla cui luce e autorità, acquisita sul campo, sul fronte della cultura, essa è guida ed esempio per coloro che la avvicinano e si nutrono del suo operare. Libero e gratuito, come solo una persona retta può far accadere. Non è cosa da poco in questo mondo. Ma forse proprio perché è una persona, che vive e respira, pensa e cammina, non un vuoto edificio di una struttura burocratica, un vuoto accademico, questo signore ancora oggi è una “funzione”, viva, vivacissima, del nostro territorio. Se non avessimo lui, in fatto di arte e cultura critica, Montecchio Maggiore sarebbe un paese spento. O al massimo una spiaggia, un parcheggio, un deserto superficiale di sabbia di riporto dove il divertimento senza visione è diventato padrone del campo. Un campetto di effimeri giochi senza frontiere da attraversare. Ad uso e consumo dell’imbonimento culturale collettivo.
Questo signore è mio zio. Fratello maggiore di mia madre. Renata.
Ricordo un giorno, seduto sul dondolo in Corso Matteotti, un giovane signore dal fascino indiscutibile. Pensate poi per un bambinetto. Lo ricordo vestito in modo elegante, ma allo stesso tempo frugale e trasgressivo, con i mille colori che l’epoca annunciava, pantaloni bianchi, attillati, a zampa di elefante, capelli neri, grandiosi occhiali da sole. Distintissimo nel parlare e nel raccontare. Mia madre mi diceva che quest’uomo, lo zio, era un professore di lettere, ma per me era semplicemente lo zio, o forse, più temerariamente, una creatura fantastica. Come lo è oggi. Che appariva e spariva d’incanto. E quando appariva ti stordiva, in senso positivo, di parole, di racconto, di riflessioni, di cose mai viste o sentite.
Quel giorno mio zio si sedette, come spesso capitava quando tornava dai suoi viaggi, accanto alla piccola creatura che ero io, sul dondolo che guardava Corso Matteotti. Accarezzando la mia piccola testa di capelli castani, ribelli, cominciò a raccontarmi di un fantastico viaggio in India. Mi parlò di gente vestita in modo insolito, adornata di colori vivaci, stesi su sete e tessuti poveri, ma bellissimi. Raccontò di cibi e di spezie, di terre disegnate da paesaggi mozzafiato e abitate da personaggi bizzarri. Mi descrisse un elefante con tanto di proboscide, termine per me allora immaginifico quanto il magnifico animale, narrandomi poi una incredibile, debordante, cavalcata elefantiaca, quasi fosse un Don Chisciotte d’Oriente. E quante altre cose mai viste né immaginate. Pensate cosa possa accadere nella mente di un infante. Dove la parola stessa – infante – genera – solo per associazione fonetica – ciò che chiamiamo fantasia. Io credo che quel breve racconto si depositò in me in forma molto più potente di un qualsiasi romanzo di Salgari o di Twain che allora leggevo, perché vissuto e narrato in prima persona. Quel giorno per me fu, ne sono certo, la scoperta, quasi iniziatica, dell’esotico e dell’alterità. Della ricerca di sé attraverso il viaggio. Dell’esplorazione e dell’attenzione verso le altre culture. Per meglio vivere e comprendere la mia. In poche parole, quel giorno fu la scoperta dell’arte e della natura fuori dal giardino di casa mia. Fuori da Corso Matteotti. Oltre l’Italia. Un primo assaggio dell’oltranza e della nostalgia che la vita riserva.
Ricordo un altro giorno, ben più avanti nel tempo, quando, sulla soglia delle decisioni difficili, metà anni 80, ammirato dalla forza e dall’eloquenza di mio zio, Giuliano, che a fatica seguivo perché investito dal mondo produttivista in cui ero nato, il Nordest del boom economico, annunciai ai miei genitori la mia sincera, rigorosa, disciplinata ribellione. Avrei rifiutato il sistema militare armato, per un tentativo disarmato. Una difesa ancora più dura e inflessibile di un semplice colpo di arma da fuoco. Si trattava di costruire con il pensiero e la parola la propria difesa. Con lo studio. Mio zio fece fatica a capire e a sostenere questa mia oltranza nei confronti della mia famiglia, di ex-contadini, commercianti e artigiani. Nel loro piccolo facevano bene, ma il mostro dell’industrialismo selvaggio, del lavoro forzato e della finanza predatrice stava per arrivare. E certe pratiche dello Stato sembravano, nella mia giovane analisi, alimentarlo. Come potevo spiegare a mio zio che parte delle mia ispirazione nasceva da lui. Dalle lezioni di lettere che mi teneva quand’ero alle medie, affascinato dal labirinto di arte e testimonianze di viaggio che era la sua casa. Una specie di rifugio di umanità. Come potevo?
Ricordo come fosse ieri il pomeriggio che entravo per la lezione. La zia Sandra, altra figura eterea e sospesa, di una gentilezza scomparsa, mi faceva accomodare nel salotto e io entravo in un mondo di sogno e di esotismo che in nessun luogo avevo mai visto. D’altra parte vivevo nel Veneto industrioso e proletario. Lo stesso zio veniva da una famiglia di comunisti e socialisti, emigrati dai monti del Tesino. Lui, poi, era pure un appassionato militante politico nel Consiglio comunale del paese. Conosceva i corpi e gli anticorpi. Là, infatti, nella sua casa – quasi per contrasto – aleggiava tra le stanze qualcosa di strano e di irriducibile. Quadri dappertutto. Non c’era angolo che non fosse degno di attenzione e di stupore. Dipinti e sculture in ogni dove, suppellettili e oggetti da altri continenti e da altre epoche, libri all’infinito, dischi 33 e 45 giri impilati in file copiose che non finivo mai di scartabellare. Quando lo zio veniva a prendermi nella sala per farmi entrare nel suo studio, personale, ero come se fossi stato in una camera di decompressione sociale, fatta di arte e magia. Poi aprivo il quaderno, lo zio indicava il tema della giornata e – sicuro di quanto importante fosse l’oratoria e l’ascolto – dopo una mia breve riflessione e avermi corretto il tema precedente – iniziava a dettarmi e a spiegarmi le forme che secondo lui erano pertinenti ed efficaci all’obiettivo del nuovo tema. Una vera e propria lezione di eloquenza e di oratoria, che io trascrivevo integralmente, sotto attenta dettatura. Il suono di quelle parole tonanti – sembrava che lo zio medesimo si stesse esercitando sulla mia attenzione – mi piaceva. Le trovavo potenti. Precise. Analitiche. Compresi che la parola è forza. Più di qualsiasi altra arma.
Ecco, quel giorno delle decisioni difficili, annunciai, sotto l’incredulità di tutti, che mi ero iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia, a Padova, e così, per prova, avevo già sostenuto 5 esami, nel periodo in cui ero stato messo in fermo dallo Stato per la mia obiezione radicale, durata un anno. Tutti e 5 gli esami col massimo dei voti. Senza contare le lodi. Stentarono a credermi. Pure io, stentavo, non a credermi, ma a raccontarlo. Avevo fatto tutto di nascosto. Mio zio, presente, rimase attonito. E legittimamente, contrario. Per me stavano per iniziare gli anni più difficili, più belli, della mia vita. Forse lui già conosceva la valle dei mulini a vento – infinita – che stavo per intraprendere. Un attraversamento senza protezioni e porti sicuri.
Con un grande salto, ricordo il giorno in cui arrivarono i primi frutti di quelle scelte e di quelle battaglie: la nuova Libreria in Corso Matteotti. Libera e indipendente. Martina, mia moglie, era in attesa del nostro secondogenito, Giovanni, mentre Giacomo aveva sette anni. Con mio padre Pietro e mia madre, mio fratello Pierpaolo e mia sorella Valentina, eravamo tutti tornati in Corso Matteotti. Una comunità di famiglia, e la Libreria io credo e volevo che fosse una specie di legame tra generazioni e percorsi. Anche in conflitto. Costruttivo, a volte in lotta, ma vicine, nonostante le diversità.
Negli anni precedenti, recluso di mia propria e ferma volontà tra studio, lavoro e impegno culturale, quando potevo avevo comunque sempre seguito lo zio nelle mostre che continuava a proporre nella galleria civica di Montecchio, nel seminterrato delle Manzoni. Sembrava proprio una festa carbonara, ogni inaugurazione. Gente giungeva da ogni dove per vedere e sentire artisti di fama nazionale. Uscivamo dalle mostre – noi tutti partecipanti – sempre stupiti e storditi. Con una consegna di immaginario superiore ad ogni previsione. Mi fu chiaro una cosa. Nonostante le aperture verso gli altri mondi e le relazioni che stavo tessendo in quel periodo di grande crescita personale, capii che il legame con il territorio, con i nostri luoghi, era prioritario e che se tu hai in mente di fare una grande cosa, la puoi fare anche al tuo paese, conoscendone ogni angolo, senza per forza lasciarsi attrarre dalle lusinghe di una grande città e contrastando per scelta – che è più di un dovere – la deriva che rischi di lasciare ai tuoi figli. Montecchio era ed è infatti una terra triste e usurpata. Bella, ma triste e usurpata.
Arrivò quindi il giorno – mi soffermo su questo fortissimo legame, siamo nel 2003 – che inaugurai la prima vera libreria del paese, dedicandola a mio nonno Giovanni, il padre di Giuliano. Fu un fatto spontaneo e una logica conseguenza di quelle consegne. Un omaggio al nonno nonagenario che qui aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita e che tutto il paese sapeva essere stata casa sua: La Casa di Giovanni. Come molti degli amici sanno, qui, da dove scrivo, è passato il mondo della cultura italiana e non solo. Messner, Corona, Battiato, Meneghello, De Marzi, Rumiz, Muraro, Bulaj, Battaglia, solo per fare qualche nome. E tutti per fatti culturali poco convenzionali. In quest’avventura mio zio fu sempre al mio fianco, come primo sostenitore morale, sul fronte insubordinato della cultura.
I nostri percorsi si incrociarono e si lasciavano. Non potevo non restare ammirato dalla mirabolante e infaticabile attività di mio zio, sia come viaggiatore culturale sia come curatore. Arrivarono gli anni della Casa Rossa Ceccato dove decidemmo di mettere insieme le forze per creare un esperimento culturale che avrebbe riunito le migliori energie intellettuali del vicentino, grazie all’eredità culturale del cibernetico Silvio Ceccato, nostro compaesano, mai domo nei confronti del sapere costituito, seppure provenisse da famiglia altolocata. Iniziai a studiarlo. La nipote ci aprì le porte della meravigliosa residenza sul colle di Montecchio e gli archivi di famiglia, libri e spartiti. Nel giro di un anno, con un gruppo di regia raccolto attorno al progetto Casa di Cultura Cibernetica, organizzammo mostre di livello nazionale e incontri di grande respiro. Ma, come sempre, in questo Veneto opulento e sonnolento, il coraggio della nipote si rivelò un fuoco di paglia smorzato dalla pressione dei poteri forti di cui lei stessa faceva parte e da cui forse voleva in qualche modo farsi notare o contrastare, grazie alla nostra inoppugnabile forza culturale. Di fronte alle mie provocazioni sociopolitiche e a certe mie oltranze – come il blocco del Giro della Padania – nate per arginare le derive identitarie della cultura che io chiamo spannoveneta, emergente, pochi capirono. Pure Giuliano, nei continui nostri confronti critici che avvenivano quotidianamente nella casa del nonno Giovanni, suo padre, non smise mai di tenermi alle strette, sotto il fuoco incrociato delle armi della critica, della sua intelligenza, per fare in modo che il “sovversivo” di suo nipote – cresciuto un po’ troppo – non fosse bandito dalla vita sociale della città. E per tale fui tacciato dal past president degli industriali di Vicenza che avvisò la nipote di Ceccato sulla mia inattingibile pericolosità. La fragile, effimera, nipote, messa al muro dalla mediocrità politica che ha distrutto il paese/Paese dove viviamo, cedette.
Noi no. Con lo zio uscimmo dalla Casa Ceccato abbandonandola al proprio poco luminoso destino. Passò qualche mese e potei apprezzare ancora di più la sua coerenza e il suo coraggio, dimostratimi ancora una volta, il momento che gli fu affidata la direzione artistica della Nuova Galleria Civica. Ma bisogna fare un passo indietro. A Montecchio molti dei nostri concittadini ricordavano il rifiuto da parte di Giuliano di un cosiddetto pubblico riconoscimento ai cittadini benemeriti della cultura consegnato da parte del Prefetto per conto del Comune. Correva l’anno 2008. Io versavo in condizioni precarie con la Libreria del nonno Giovanni. Moltissimi clienti, popolari, di paese e da tutta la provincia, la frequentavano, ma l’ostruzione culturale da parte di chi poteva dare legittimo lavoro alla mia piccola casa editrice, collegata alla Libreria, era forte. Nessun lavoro offerto dal Comune, acquisti miserevoli da parte della Biblioteca Civica… e con i libri al giorno d’oggi si muore, non si vive. O meglio, con quelli giusti, si destabilizza il potere. Quello con la p maiuscola. Lo stesso che usa la cultura come mezzo di addomesticamento di massa. Quel giorno di artificiosa celebrazione – di omaggio culturale dove neppure fui informato – lo zio rifiutò il premio, proprio per dissociarsi dalla farsa in atto, ma saggiamente non rifiutò la direzione della Nuova Galleria Civica, che tanto aveva fatto per farla nascere, evocandola in più occasioni.
Nacque quindi la Nuova Galleria Civica nel 2014, bellissima, nella ex sede di un’officina delle Tramvie Vicentine. D’altra parte, chi meglio di lui poteva gestirla e farla vivere? Con un’esperienza di curatela e di critica d’arte che pochissimi potevano dimostrare a livello nazionale e a cui si inchinò anche Vittorio Sgarbi! Tanto per citare un santo apocrifo della critica d’arte italiana. Chi poteva reggerla? Di più: una galleria civica è o non è uno spazio comune che supera ogni deviazione pubblica di appartenenza politica, uno spazio dove la comunità cresce e dialoga insieme?
Mio zio accettò. A una condizione. Che il terribile nipote potesse essere co-curatore quando il caso superava la necessità. Giuliano partì in quinta e io gli diedi manforte con la prestigiosa e temeraria mostra di Letizia Battaglia, la più grande fotografa italiana al mondo, celebre per le foto sulla mafia. Una mostra dal titolo emblematico: Non c’è bellezza senza giustizia. Ultima fermata. Per rimarcare un concetto a noi chiaro: la collusione non è solo al sud, ma parte proprio e pure da questa stazione di Montecchio e si infila e si ramifica per tutta l’Italia del Nord, da qui su per la Valle dell’Agno e del Chiampo. Soprattutto attraverso gli scarti e i rifiuti tossici. Gli attuali scandali della Pedemontana e della contaminazione dell’acqua da Pfas ne sono una prova, un esempio di malaffare e di malagestione, espressione dei grandi giri illeciti di economia finanziaria multinazionale e di lavoro coatto che producono fanghi interrati o bruciati, che alla fine ritornano a galla, in superficie, lasciando ai figli territori devastati.
Così, chiudo con questa superba immagine di mio zio. Quella del giorno dove compresi il suo essere super. Nel senso concreto e gergale della parola. Per quanto si pensi che egli sia a volte astratto o solo un grande professore. Scendo dalla Valle dell’Agno. Torno dal mio lavoro di operatore-culturale-non-esiliato, ma straniero per scelta. Straniero dal lavoro e dal territorio come coazione. Scendo da Schio. So che mio zio sta per inaugurare la mostra sull’Astrattismo Oggettivo. Che roba è questo astrattismo oggettivo, direte voi. Pure io me lo stavo chiedendo in quell’occasione, essendo di fatto un attivista sul campo della battaglia civile, sociale, anche se ho studiato e pratico diverse forme d’arte.
Entro in Galleria. Giuliano è alla fine della sua prolusione.
Come ai tempi della vecchia Galleria Manzoni, un sacco di gente. Una moltitudine di singoli affascinata e in parte inconsapevole di quello che sta capitando in quella valle grigia e devastata dall’uomo: un lampo di luce… un dirigibile di colore, una navicella spaziale, sospesa nel vuoto di un Veneto smunto. Questo mi dico dal soppalco mentre osservo dall’alto la nuvolaglia nera. Quel piombo attraversa le vetrate! In lontananza si stagliano le montagne nere di Recoaro, lambite appena sotto dalla strada provinciale 246, incolore. Il nord non promette niente di buono. Ma qui, a Montecchio, quasi per miracolo, mi dico, c’è una luce, uno spazio, un inserto di luce e colore che sa proprio di rivoluzione! Di Mediterraneo. Di terra tra le terre. Una ricerca pura. Che non è astrazione solo. Ma molto di più. È sovversione del presente. Irriducibile stupore.
Sì, un dirigibile di colore! Sospeso nel grigio…
Mai come in quel momento ho capito la carica rivoluzionaria dell’arte, attraverso l’alterità pura e scarna, netta, astratta, della luce e del colore. La sua ricerca estrema di fronte alla bassezza dell’uomo. Una scia di luce nel grigio dell’urbe. Di luce e stupore. Nel grigio che tutti ci attende, ma che spesso noi alimentiamo, accumulandolo.
Un coraggio e una forza enorme serve e serviva per far accadere un miracolo del genere nei luoghi dove noi tutti, veneti contemporanei, ci siamo ritrovati a vivere. Una mostra del genere – di puro colore – a Montecchio! Mi dicevo. L’epicentro fisico e simbolico di un Veneto imploso. Su se stesso. Sulle proprie scorie. Sugli scarti grigi di un colore che fu e che urge in qualche modo invocare. Quasi a pregare… che accada. Subito.
Lo vidi come un miracolo di cura fatto da un uomo che ha sempre creduto in se stesso e nelle relazioni con tutto ciò che lo circonda. Il bene e il male. Il colore e l’incolore. Il bianco e il nero, accompagnati da tutti i colori immaginabili del mondo. Una moltitudine vorticosa di colore messa in circolo dalla Galleria. Quell’uomo era il curatore di una navicella insubordinata! Al grigiore del mondo. Questo è l’arte. Mi dissi. Sovversione. Del presente. Il rosso nel sangue della vita. Il rosso nel grigio artificioso del mondo.Tutto il resto è ornamento. Come i verdi sintetici, scintillanti, artificiosi, il green washing e smashing – portatori di false identità – che hanno inquinato il nostro mondo.
«Felice e orgoglioso di esserti stato allievo e compagno». Questo gli ho detto il giorno del suo ottantesimo compleanno, nella “nostra” libreria in Corso Matteotti. A pochi metri da dove altalenava quel nostalgico dondolo.
Lui mi sembra la stessa persona di allora. Giovane. Affascinante e irriducibile. So che domani l’altro inaugurerà una nuova mostra temporanea. Passeggera. Ma per noi il suo segno è già permanente. Per sempre.
Vogliategli bene, compagni di luce.
Buone visioni.
Alberto Peruffo
Montecchio Maggiore, 10 ottobre 2019

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