IL POPOLO DEL GUÀ. Insanguinà | NON ESISTE IL POPOLO VENETO. Esistono gli abitanti di un Veneto, bellissimo, devastato

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IL POPOLO DEL GUÀ. Insanguinà | NON ESISTE IL POPOLO VENETO. Esistono gli abitanti di un Veneto, bellissimo, devastato | ovvero sia la DISTRUZIONE della Fontana di Valbona e il mastodontico FANTOCCIO del Leone di San Marco sulla Rotatoria del Crimine Ambientale | o della manipolazione dei simboli e delle identità strumentali, per DEVIARE dai problemi reali
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di Alberto Peruffo

«Come nialtri no ghe n’è altri.
Se ghe n’è ancora, che i vegna fora!»
Proverbio veneto, citato da Ulderico Bernardi

«In mano ai furbi, l’identità diventa fatalmente caricatura».
«La Lega è figlia dello spaesamento, non della cultura di paese».
«La sazietà ha addormentato la politica».

Paolo Rumiz

  1. NON ESISTE IL POPOLO VENETO. Esiste una Regione bellissima devastata dai veneti

Se l’identità fosse una dolce appartenenza alla terra – ciò che si nasconde dietro ai termini “radici” ed “ethnos” – essa sarebbe niente di male e solo che bene, perché grazie a quella rarefatta parola si impara a conoscere e riconoscere, ad amare e a difendere il proprio territorio, ma quando quella stessa parola diventa autoritaria, identità forzata, cristallizzata, per veicolare i suoi peggiori derivati – Razza, Stirpe, Popolo con le lettere maiuscola – ecco, siamo di fronte all’arroganza dell’uomo che genera il suo mostro più grande, funzionale ad una sola cosa: la sua volontà di potenza. Che, tradotto in termini popolari, non significa altro che avere la pancia piena e il giardino sicuro. Sempre. A prescindere. Da tutto e da tutti. E dimostrare questa potenza al mondo.

Di fronte a questo scellerato uso abbiamo uomini tristi e arroganti, nella loro supposta grandezza, un Popolo che si crede immobile, immutevole, depositario di chissà quale segreto Graal – un’ampolla celtica vent’anni fa, oggi un Leone Castrato (v. nota 1) – simboli di onnipotenze ancestrali e vita perenne. Dimenticando che il segreto dell’identità collettive – di queste stiamo parlando, nel bene e nel male – è il movimento concertato, la complessità, segnate dalla coerenza nello scambio e nelle relazioni tra i molteplici soggetti, di per sé in mutamento continuo e passeggeri. Tutto muta: individui, natura, territorio. La coerenza delle relazioni per un dato percorso in un dato tempo formano la cultura di un dato luogo. L’identità collettiva. Niente di più. Anche le identità muoiono. Specie se attaccate dal morbo dell’incoerenza e della falsità.

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Quale popolo emergerà alla fine di questo scritto? [Archivio CCC. Prima Marcia dei Pfiori, fronte MITENI]
Non solo. I popoli – come identità collettive – esistono se non per astrazioni molto forti o isolamenti geografici, isolamenti tuttavia, pure questi, sempre soggetti a mutamenti. Di concetto, i primi, di fatto biologico, i secondi. Più corretto – soprattutto in aree molto ampie e soggetti a flussi, crocevie, scambio, come la Pianura veneto-padana – sarebbe perciò parlare di “popolazioni” e di relative culture, ovvero di caratteristiche precipue di un dato luogo passate per via non genetica (per nascita biologica), ma culturale (per nascita geografica e apprendimento di luogo), come la lingua, il dialetto, parlato addirittura dai figli dei nuovi immigrati, caratteristiche che possono essere assimilate anche dagli ultimi arrivati, che in quel luogo non sono nati. Qui da noi, crocevia del mondo da secoli, anche grazie alla Serenissima, non esiste quindi un Popolo veneto, con la p maiuscola, ma esistono gli abitanti del Veneto, con la loro cultura. Che può piacere o non piacere. Esiste, anzi, politicamente parlando, una Regione Veneto devastata dai veneti, gli attuali abitanti del Veneto. Che intrallazzano affari con il resto del mondo. Non come un tempo, rispettando le terre dove vivono, ma devastandole.

Altro passaggio (non necessario ma utile alla comprensione e come approfondimento “personale”: eventualmente saltate alla sintesi).

Ogni identità, anche la nostra personale – quando non è un percorso di coerenza – nasconde una pre-potenza, una potenza a priori, una mera illusione sempre distrutta dal passare del tempo. Perfino biologicamente. Nasconde l’illusione di essere non tanto unici, perché lo siamo, ma immutabili e perenni, in parte onnipotenti. Quando questa prepotenza diventa il fondamento primo e ultimo del nostro agire e non presa di coscienza del nostro limite, la prepotenza sfocia in arroganza. L’arroganza genera violenza e i suoi derivati. La violenza distrugge la stessa primigenia potenza. Senza permettere di trasformarsi in forma, costruzione, passaggio duraturo. Amen. (v. nota 2)

Quando poi l’individuo è fragile – tutti lo siamo – si rifugia soprattutto nelle identità collettive. Anche legittimamente. Si pensi ai gruppi di amicizia e di lavoro. Tutte nostre costruzioni. Fino ai Popoli. Esistono tuttavia i popoli con la p minuscola, non arroganti, solidali, che non sono altro che gli abitanti di un luogo accomunati dalla stessa cultura, abitanti che con l’andare del tempo diventano genti, gentili appartenenti ad un’origine comune. Di terra, di lingua, di tradizioni, di usi, costumi: le cosiddette radici. Un’origine che può tuttavia scemare di fronte alla barbarie di chi la manipola a suo uso e consumo. Leghisti e Zaisti ne sono un esempio lampante, tanto da aver generato una nuova razza che un tempo Paolo Rumiz tentò di chiamare Homo Padanus, ma che io, visto le spanne dei ragionamenti di questi uomini, citati, ho proposto di chiamare, come già scritto, spannoveneto. (v. nota 3)

In sintesi: non esiste il Popolo Veneto (nota 4). Esistono gli abitanti della Regione Veneto e la cultura veneta. Esistono di questa le tradizioni, i caratteri.
Lo stesso vale per tutti gli altri popoli.

Tuttavia, nel Periodo Tardoveneto del secolo XX°, emergono gli Spannoveneti, una razza fiction di cui le tracce si ritrovano sul territorio con monumenti esilaranti fin dall’anno 18, secolo XXI°: esempio straordinario, per abborracciata bellezza e luogo insano, è il cosiddetto Leon Sborassà, ritrovato nel Comune di Trissino, sotto un cumulo di plastica, e datato dagli increduli storici, 14 ottobre 2018, giorno della sua animalesca inaugurazione. (v. nota 1)

 

  1. LA TERRA DOVE ABITO. «Montecchio (VI), hanno sepolto tutto: immondizie, memoria e coraggio»

Ma abitiamo davvero la terra dove viviamo? O siamo solo in transito superficiale, con una tavola da suv-surf, per entrare finalmente nel giardino di casa nostra o nella sala giochi della nostra idiozia, sia essa la televisione, lo schermo di un qualsiasi dispositivo o l’Admiral Club del proprio paese?

Se dovessi iniziare un racconto, una storia autobiografica, in prima persona, comincerei così: vivo in una zona bellissima del pianeta Terra, a più alto rischio, dove il rapporto tra uomo e natura è stato infranto.

In realtà, ciò che segue è l’inizio di un post davvero scritto, ben più drammatico e concreto, che diventò virale nei social grazie a delle potentissime immagini pollockiane tratte da una strada immondezzaio, la Superstrada Pedemontana Veneta, in un tratto “scoperto” dai miei compagni, fotografi d’assalto:

«Questa è la terra dove vivo. Italia, Veneto, Montecchio Maggiore. Stanno distruggendo le Poscole, per costruire una strada immonda, scavando dove non possono scavare, vicino ai PFAS della Miteni, tra le discariche storiche di Montecchio e le concerie Mastrotto». (v. foto e nota 5)

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Pollock in Veneto [+ di 1500 condivisioni su FB], non molto distante dalla MITENI e dalla Rotatoria del Crimine Ambientale
E chiudevo con parole dettate dallo sgomento e dal disincanto:

«Non torneranno i prati da queste parti. Non torneranno. Di fronte a queste foto che mostrano la follia immonda di questa terra, non torneranno. Perché sotto la terra hanno sepolto tutto: immondizia, memoria, coraggio».

Su quel “non torneranno” (nota 6), assurto a mantra collettivo grazie ad un abile capovolgimento del titolo di un recente film di Ermanno Olmi, sponsorizzato in modo ignobile dalla Banca Popolare di Vicenza, ossia dal guerrafondaio Zonin, mandante morale ed economico della nuova base militare Dal Molin, molti di noi hanno giocato la loro partita di opposizione sociale, oggi incredibilmente riunita, sublimata, quasi fosse una tempesta connettiva, sullo sciagurato Leone voluto dagli stessi distruttori del nostro territorio, per deviare le attenzioni e dare un biscottino agli stessi manipolati Venetisti ribelli, quelli che un tempo si entusiasmarono per l’assalto al Campanile di San Marco. Non solo, la vicinanza della Fontana di Valbona, divelta e distrutta, antica testimonianza delle acque cristalline di questi luoghi (nota 7), origine del più antico toponimo della zona, anno 1200 c., attesta senza ombra di dubbio l’omicidio di una cultura da parte di beoti che si credono veneti e invece sono servi in primis dei loro giardini, in secondo delle più svariate plutocrazie, siano esse multinazionali, banche, ricconi di paese, in terzo sotto il tiro di cosche malavitose.
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Incredibile, ma vero. Il tratto di asfalto della S. PEDEMONTANA VENETA sotto cui è stato sepolta la Fontana di Valbona [qui l’articolo del Prof. Michele Santuliana]
Peggio, anni fa, per costruire quella impronunciabile strada hanno bruciato le mappe irrigue disegnate dalla Serenissima tra Trissino e Castelgomberto, facendo sparire l’antichissima Roggia dei Molini, per non parlare delle Rotte del Guà. L’acqua non mente, scriveva Rumiz. E di mezzo a queste menzogne-fogne c’è pure l’avallo della Soprintendenza della Provincia, fatta di parenti di parenti e di clienti di clienti. Il nepotismo clientelare sembra essere il fondamento della nostra Repubblica, specie quella tanto decantata, Veneta, fondata sul lavoro a tutti i costi. Un’eredità della Serenissima Repubblica e dei potentati coevi, spesso alleati, Chiesa Romana in primis, o un’invenzione della Repubblica italiana?

Difficile rispondere. Ma c’è un dato di fatto, contemporaneo: nessuno, o quasi, dei dirigenti politici di professione conosce fisicamente il proprio territorio (nota 8). Chiedete agli amministratori del Veneto quanti di loro abbiano solcato la cima di una montagna locale, o la propria campagna, i sentieri di casa con le proprie gambe, quanti sindaci conoscono le proprie terre per averci camminato sopra o lavorato, e quanti invece, protesi verso l’apice delle loro carriere, abbiano solo tagliato nastri, gozzovigliato a sagre, inaugurato rotatorie e strade, bevuto a pranzi e cene, parlato a congressi di partiti e partitini, sparlato a spettacolini televisivi. O al massimo, per tornare alla parte fisica del territorio, curato il giardino di casa propria. Che non è la casa comune. Quando sono in politica, il loro tempo è tutto una carriera e se sali nei palazzi a chiedere un toponimo o notizie su una contrada, come accadde per la Valbona, non cascano neppure dal peraro, perché non esiste più, l’albero dei peri. Esiste l’albero degli allocchi. Esiste il Popolo Veneto che ha ucciso il proprio territorio, perdendone completamente il controllo.

Zaia, Galan, Variati, Costa – come archetipi della politica, sociologicamente parlando – sono gli assassini della civiltà contadina del Veneto e dello straordinario agglomerato di culture che questa Regione rappresentava (nota 9), divenuta oggi un agglomerato urbano caos/centrico – neppure policentrico – da est a ovest, da nord a sud, con zone residenziali e industriali ideate a bombe a spillo attraversate da strade pazzesche disegnate da maiali, in doppio senso. Sia per la litigiosità delle linee, sia per i danni animaleschi che solo umani dall’intestino senza fondo potevano fare. Gli animali del Veneto. Oggi auto-monumentalizzati (nella doppia accezione di auto, car & self) grazie al mastodontico Leon Sborassà. La Fontana della Valbona è l’ultimo e definitivo scempio che dimostra che questi personaggi non meritano di essere chiamati veneti, come lo sono stati i nostri padri e i nostri nonni. Sentiteli come parlano! Neppure il veneto degli immigrati è così forzato e artificiale, da finto boaro come vuol sembrare Zaia, Galan, Variati e compagnia spannoveneta, quando si fingono veneti, perché neppure dei nostri boari hanno la dignità. Sono – ora antropologicamente parlando – beoti. Prestati alla politica per fare soldi. E danni immani alla comunità, come l’avvelenamento del sangue e delle acque. «Le acque non mentono mai, sono un simbolo potente, specie nelle grandi emergenze» – diceva Paolo Rumiz, riferito alle alluvioni. E sui PFAS, caro governatore Zaia, le terribili sostanze perfluoroalchiliche bandite recentemente dall’ONU in tutto il mondo (i PFOA) e delle quali siamo i massimi produttori ed esportatori, oltre che portatori nel nostro sangue? Cosa diciamo? Di esseri primi, al mondo!, ad aver messo i limiti – dicono infausti Zaia e assessori alla stampa. I limiti a cosa? Alla propria demenza? Bisogna esserne fieri? O animali da fiera?

In sintesi: le acque avvelenate del Veneto non mentono, come l’immondizia della Superstrada Pedemontana Veneta, nonostante ora ci piazzino sopra una Leone Castrato alla confluenza di questi crimini, simbolo della loro secessione. Mentale. E della svendita del territorio a terze parti.

 

  1. LA LINGUA E I MIGRANTI. E altre bazzecole identitarie

Parlavamo di come parlano i nostri politici spannoveneti. Un delirio afasico. Voi credete che costoro conoscano Meneghello, Rigoni Stern, Pascutto, Calzavara, Zanzotto, Biagio Marin, Bandini, Bagagiolo, Coltro, Noventa e così avanti.

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Luigi Meneghello sembra intento a spiegarmi il difficile concetto che troverete più sotto [Archivio CCC – Vecchia LCDG]
No. Non li conoscono, se non per sentito dire. Ma neppure a voce. Solo sussurri blasfemi per vie di corridoio o dove sono stati costretti a presenziare. La cultura orale l’hanno denigrata a scapito della carta bollata e della presenza di scambio, mentre le carte sacre della nostra letteratura neppure le portano al cesso. Io sono certo che Meneghello e Rigoni Stern, di cui sono stato amico negli ultimi anni della loro vita e di cui ricordo la loro morte nella disperazione/disillusione di vedere insultate le tradizioni, tradito i principi per cui avevano lottato, vomiterebbero bile amara in faccia a Zaia, Variati e compagnia bella. Oggi più che mai. Ricordo un passo in cui Meneghello mi spiegò che il dispatrio, non era solo l’andarsene da una patria, ma di essere in un luogo senza padri. Padri della memoria e delle buone tradizioni, del diritto e del coraggio. Custodi della terra e del dialetto e non di una lingua farisea fatta passare per istituzione. Addirittura un ministero dell’identità veneta hanno fatto, dandolo in mano a mentecatti che di veneto non sanno niente. Rigoni Stern quasi pianse di rabbia quando mi confidò cosa pensava di cosa stava accadendo in pianura, a Vicenza, ad opera della politica vicentina, mentre idioti costruivano il Dal Molin. A 80 anni, è triste. Tristissimo. Vedere un padre delle nostre terre, senza speranza, disperato. Quasi uccise la mia giovane ribellione. Loro, che erano stati migranti per necessità o per scelta politica cosa direbbero oggi di fronte ai proclami salviniani e alle fronde razziste che la Lega da sempre ha cercato di alimentare, non tanto perché ci crede, alla razza, ma perché sa che è funzionale. La paura è funzione. Funzione del potere.

Devo ricordarlo io agli identitari veneti che è stato il 1966 l’anno della rivoluzione nella nostre terre del Nordest. Sull’onda dell’emigrazione dei loro padri, i nostri nonni, nel giro di un ventennio da emigranti e lavoratori a basso reddito, si è passato a un esercito di padroncini. Così scrive il sociologo Ulderico Bernardi di Ca’ Foscari. Inizia tutto nel 1966: si inverte per la prima volta l’emorragia migratoria: «dopo quasi un secolo il numero degli espatri diventa inferiore a quello dei rimpatri». Certo, quell’emorragia fu causata da uno Stato nuovo, nazionale e prevaricatore, ma pure dalle complesse dinamiche politiche che portò alla morte di una Serenissima, che per quanto Serenissima, trattava la gente delle campagne come schiavi, dominate dai grandi proprietari. L’emigrazione era un passaggio, che si credeva metabolizzato. Mentre oggi? Non millenni dopo! Dopo solo qualche decade da quegli anni fatidici? Memorie cestinate! Girate allora la questione alla fuga di cervelli, veneti, non più quantificabile in termini numerici di persone, ma di capitale culturale, qui nato, svezzato e poi fuggito. Incommensurabile, la risposta. E il danno ai luoghi. Ma è colpa di questi padri – e madri – spannoveneti, che hanno creduto alle balle di Zaia, Berlusconi, Galan e alla misera opposizione di sinistra e alle destre che sputano sui migranti tacendo che arrivano da terre devastate dalle nostre stesse produzioni, parlando di integrazione solo a patto che gli stessi migranti stiano zitti sui loro diritti e lavorino a testa bassa sui fetori delle concerie, per essere pronti all’uso, al riciclo, quando è il momento di alzare la propaganda negazionista. Il Ministro Salvini venga a fare un giro per Arzignano, senza tappi sul naso, prima di sparare a zero sul lavoro e sulle relazioni sociali tenute in piedi dai migranti, utili a sfamare le bocche senza fondo dei conciari, della Miteni, che hanno avvelenato mezzo Veneto, dalle 350 alle 500.000 persone, e ora esportano PFAS in tutto il mondo attraverso la filiera alimentare. Salvini non è un ministro. È un minestro di idiozie che spande da ogni buco veleni funzionali alla paura. È il ministro della paura. Funzione del potere.

E il suo compagno Zaia? Dovremmo lasciarlo intonso davanti al Leone identitario piantato sul peggiore posto che si potesse piantare? Ma quanto scellerato – in fatto di comunicazione parlando – deve essere un amministratore che dice: siamo i più bravi al mondo con gli studi epidemiologici sul sangue, siamo stati i primi a mettere i limiti nell’acqua, siamo i migliori. Piantiamo pure un leone? Mona! Se hai il sangue e le acque più contaminate del mondo in fatto di PFAS, per forza sei il primo. Ma non nella categoria dei migliori. Ma dei cojoni, anzi, dei senza cojoni secondo gli studi sul tema infertilità maschile sollevato dalla scienza internazionale, studi portati alla ribalta dal Dottor Vincenzo Cordiano, dai Medici ISDE, ora in via di perfezionamento dai grandi accentratori delle Università, come il Dottor Carlo Foresta (nota 10).

In sintesi: prima di parlare di Veneto e in veneto, fate girare le gambe e il cervello, vivete il territorio, e se parlate di identità, l’unica certificata identità dello Spannoveneto, oltre ai schei, il primo intoccabile imprinting identitario, è che conosce tutto a spanne, praticamente niente, lingua, territorio, conseguenze. Non si ricorda neppure di essere stato migrante e di essere ora un nuovo schiavista di migranti. A doppia mandata. In terra nostra e in terra loro. Rubando là, estraendo risorse; denigrando e svendendo la propria terra, qua.

 

  1. L’AUTONOMIA. I popoli passano, i territori restano. Devastati

Gli spannoveneti non abitano più il Veneto, ci surfano sopra, magari con mega-suv. Vivono in auto, negli uffici, dentro ai loro giardini, cellulari, televisioni, carriere e del Veneto sanno niente, o quasi. Però si lamentano.

Io capisco i veneti che sono contro le incongruenze dello Stato, ma non accetto sentire lamentele dagli stessi che hanno votato i devastatori del Veneto stesso, capi di un altro Staterello fondato non sul diritto, la Costituzione, il legittimo lavoro, ma semplicemente sul clientelismo. Tu fai un favore a me che io faccio un favore a te. A cominciare dal voto. Non si vota più perché si crede a un’idea, a un progetto, a una persona, ma solo perché da quel voto ci si aspetta un favore.

La deriva plebiscitaria-populista trasversale che abbiamo visto nelle ultime elezioni in Veneto (referendum e politiche) è per certi versi la certificazione della nascita dell’Homo Padanus descritto da Rumiz nel suo libro La secessione leggera, uomo da me chiamato spannoveneto. Dice Rumiz: «L’Homo padanus – lo spannoveneto (nda) – è il paradigma della tripla contraddizione fotografata da Zygmunt Bauman, la solitudine del cittadino globale: la sicurezza insicura, la certezza incerta, la rischiosa incolumità».

Ecco allora che con la paura come funzione, l’autonomia vuota di significato monta. C’è un fatto rilevante di questa falsa autonomia propagandata da Zaia e compagnia: essa ha perso – sradicata – la componente più importante di quel concetto, quello che gli storici/antropologi chiamano autoctonìa, lo sentirsi gente del luogo. Questo sentire così lo spiega Ulderico Bernardi: «il senso profondo di essere stati generati dalla terra allo stesso modo in cui la terra ha dato origine, con una fecondità inesauribile, a rocce, alberi, fiumi e fiori». I nostri p-fiori oggi contaminati dai PFAS. I nostri figli.

Così, in noi del Veneto, come in altre parti d’Italia, è avvenuta quella che Rumiz chiamò “secessione leggera”, ma che in realtà, lo capiamo solo ora, dopo quasi 20 anni da quel preziosissimo libro, non è tanto e solo un fatto o un tentativo politico, ma un fatto antropologico-culturale, conclamato da una montagna di prove: la secessione mentale (che la mente fa, oggi più che mai, grazie alle tecnologie) dalla nostra terra, dalla geografia, dai luoghi che abitiamo.

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ANTROPOCENE VENETO. Lo scritto di Dario Zampieri, geologo dell’Università di Padova [Archivo CCC – qui il testo]
O che non abitiamo più. Perché rinchiusi nei nostri giardini, nelle nostra grandi capanne – i ca-pa-no-ni – nelle nostre case, sperando che quel l’insicurezza non entri, mai. Ma l’acqua entra dappertutto, non ha confini. E non mente. Passa in ogni dove. Dal rubinetto fino al cibo. E non mentirà neppure quando passerò sotto al Leone Castrato di Trissino.

Inciso olfattivo. È come la puzza delle concerie, quando ci turiamo il naso. Passa attraverso la nostra coscienza, per via subliminale e ci salviamo nel “speriamo bene, che non tocchi a me”. Vi svelo un altro fatto a riguardo, incontestabile, sul Leone puzzone. Poco prima di arrivare alla Rotatoria del Crimine Ambientale, una bellissima falsa bandiera di San Marco, grande, con la spada, svetta al fianco della Statale, a pochi metri dalla Poscola. La cambiano spesso i proprietari. Gli acidi aeriformi della zona ammorba il tessuto, che non dura tanto. Così, quando passi di lì e vedi la bandiera, la prima associazione che fai è la puzza. La puzza di cloruri della concia che infestano la zona e che associ subito allo stendardo marciano. Specie se passi il fine settimana, quando il fetore aumenta. Una bandiera che puzza come il Leone che ora mettono sulla rotatoria e che oltre ad essere segno di grande tristezza, un Leone puzzone, non è altro che un contentino che gli intrallazzatori del territorio danno in pasto ai Venetisti insicuri per tenerli buoni e deviarli dal fatto che il controllo sul territorio da parte della politica è interamente svanito. Chi controlla il territorio se anche il Leone di San Marco puzza di marcio? Domandatevelo, veneti, venetisti! Dovreste essere i primi a ribellarvi contro coloro che hanno svenduto il vostro simbolo e avvelenato il territorio, i vostri figli, a cominciare dal Sindaco di Trissino che poteva e doveva fermare quella fabbrica di morte e non l’ha mai fatto. Anche dopo gli ultimi gravissimi fatti. Leggetevi gli atti del Comune di Trissino!

Non solo. Questa necessità di trincerarsi dietro a un simbolo – autentico o farlocco – dimostra una mentalità debole, un popolo culturalmente povero, un “doversi” apparentare a un qualcosa di duraturo di fronte alle domande inevitabili della vita, schiavi del proprio egoismo/individualismo troppo marcato, quasi suicida, pur di primeggiare, che ha paura della proprio caducità. Tipico di una civiltà immatura, sottomessa e manipolabile, che per secoli certa chiesa cattolica ha dominato. Inculcando il culto del fare, del perdonare e del non pensare. Meglio non pensare, allora, e mettersi a fare, a fare sempre, a lavorare, a non usare le parole, a produrre a testa bassa, a mangiare e a chiudersi nel proprio giardino di casa. Fare e ostentare solo ciò che rientra dentro al proprio recinto. E se si sbaglia, chiedere perdono. Fin quando non arriva l’acqua sporca. Altro che autonomia. Questa si chiama eteronomia. O, in parole popolari, servitù.

Infine, altro indizio, questa volta intestinale, su questa autonomia infantile, protesa verso la pancia e non verso la libertà, è il culto esagerato del cibo (v. Cracco e c.), che fa da anticorpo digestivo a una cultura scientifica di buon livello, tenendo il veneto tipico al livello più basso della sua intelligenza, poiché, a pancia piena, si inibisce il confronto argomentato, lo si istiga al rifiuto, inneggiando alla semplicità: siamo persone semplici, noi veneti, si sente dire, dove invece la semplificazione nasconde la codardia di confrontarsi con la reale complessità del Veneto. Il confronto sottrae spazio alla pancia, alla cupidigia, all’espletamento dei bisogni essenziali – mangiare e prolificare – alla parte edonistica di quei primigeni bisogni. Questo indizio/inciso porta il veneto non-abitante (il “veneto vegetale” che ha perso la facoltà dell’abitare) ad essere quello che è, oggi, in epoca zaista: uno spannoveneto.

In sintesi: i popoli passano, i territori restano (v. nota 3). E se restano devastati, ecco la ragione per cui questi veneti non si meritano l’autonomia che propugnano. L’autonomia deve essere dei territori, delle genti che vi abitano, non dei Popoli con la p maiuscola. Se questi non abitano e difendono i luoghi dove vivono non meritano di invocare l’autonomia. Restano servi. S-ciavi, da cui la parola veneta più famosa al mondo.

 

CONCLUSIONE. Una inquietante questione seriale su una delle terre più belle d’Europa. Il popolo del Guà, insanguinà!

Sapendo quanto bella è la terra dove vivo e quanto è stata devastata, mi pongo questa inquietante questione seriale: ma veramente gli pseudoabitanti di un luogo si meritano quel luogo? Altrimenti, con quale arroganza lo pretendono? O giustificano quell’arroganza? E se lo fanno mediante il sotterfugio di falsi simboli e di identità peregrine, non sono forse peggio di chi magari arriva rispettoso in quelle terre perché le sue terre sono inospitali? Ossia, cosa distingue la civiltà di un luogo da un altro?

Risposta prima: il rispetto dei propri principi e il confronto costruttivo con i principi delle altre civiltà distingue una civiltà dalle altre.

Risposta seconda: noi non meritiamo più i luoghi dove abitiamo. Perché? Perché non li abitiamo più e stiamo consegnando acqua avvelenata ai nostri figli. Qui la nostra civiltà si sta suicidando. In principio era l’acqua, scrivevo nella seconda Marcia dei Pfiori, contro i PFAS, citando Talete nella prima proposizione riconosciuta della civiltà greco-occidentale. Ora non più. L’acqua è stata violata.

Incalza Rumiz: quando non c’è più ethnos e topos, rimane il ghenos, il sangue. Ed ora che pure questo è contaminato!!! Cosa rimane? In altre parole, più popolari, spiega Rumiz, se abbiamo ucciso le tradizioni, le buone regole di comunità, se abbiamo ucciso i luoghi… rimane il sangue, la razza «per definire noi stessi di fronte all’urto di popoli forestieri». Oltre a essere l’escamotage più basso e infelice per una popolazione ricorrere alla razza, al sangue, alla stirpe per tentare di difendersi, raggrupparsi, identificarsi, diventare branco in assetto di difesa – quando invece sappiamo l’appartenenza essere un fatto prettamente culturale, un credo dettato dalla mente, dall’arbitrio, mai dal sangue!, anche nelle famiglie che condividono lo stesso seme! – vorrei chiedere a questi signori ghenocentrici che ce ne facciamo di un sangue contaminato, di una razza marcia fin nel suo liquido più importante, il sangue. Peggio, pure l’altro fluido vitale di questa ipotetica razza è stato messo in ginocchio! Lo sperma! Lo sboro sue recie del Leon!

Che ce ne facciamo Zaia delle tue strombazzate sul Popolo Veneto e l’Autonomia di fronte ai nostri figli, sangue del nostro sangue, contaminati? Quando l’autodeterminazione diventa arroccamento localistico e accanimento contro lo straniero è in pericolo la stessa salute del “popolo” che si vuole difendere. Perché con questa fandonia del Popolo Veneto si devia la questione dai veri problemi, mentre gli altri ci vanno a nozze, fanno soldi e banchetti marzottiani. Avete già dimenticato il milione di euro regalato dal Conte Marzotto a Berlusconi? Quasi fossero caramelle. Zaia lo sa bene.

O meglio, cosa sa e non dice, con le sue strombazzate da bambino fintocontadino? Perché non dice a chiare lettere che lui e i suoi compari leghisti con l’appiglio dell’etnico, del Popolo Veneto, vogliono difendere i poteri dei parassiti della politica professionista e plutocrati che hanno dei nomi chiari come il sole padano, basta leggere i giornali o andare a una conferenza di Confindustria. Ma c’è una grande novità all’orizzonte: questa perimetrazione plutocratica e consociativa clientelare rischia di saltare con l’arrivo delle forze dal basso, con i movimenti nati da questa contaminazione… (riformulo qui un concetto di Rumiz, che parla di perimetrazione etnica). Un nuovo inquietante ghenos si sta per affacciare all’orizzonte. Il popolo contaminato delle Terre del Guà (vedi finale). Ora hanno paura di noi. La Procura indaga noi e lascia a piede libero i criminali che hanno inquinato.

Noi, gli animali ribelli, contaminati, davvero fratelli e sorelle di sangue, di qualsiasi colore, mestiere, razza, ci fanno passare per criminali e ostentano il loro animale pacchiano con la speranza che altri ribelli – la popolazione contaminata in potenza lo è tutta – non crescano e prolificano, deviando dal percorso di futura critica una coscienza di massa, e consegnare al popolo beota un immaginario di grandezza e tranquillità: ci siamo noi della Regione del Veneto a governare il territorio. Dormite sonni tranquilli. Col Leon che rende cojon.

Chiudo con una prospettiva futura. E non ho paura a dilungarmi. La mia è una lotta contro la paura. Questa lotta ha bisogno di parole per non sfociare in percorsi di violenza, di chiusura, di infamia.

Il Veneto è tra le regioni più belle del mondo se investisse in cultura, innovazione, paesaggio e dimenticasse i cialtroni spannografici e iperconsumisti che ci hanno governato per vent’anni.

Il modello Nordest ha tenuto come struttura di efficienza e voglia di sperimentare, ma ora deve gettare fuori le peggiori scorie, o meglio trattarle, diventare la Regione che detta al mondo il rispetto dell’ambiente e della salute. Siamo diventati ricchi troppo in fretta, usciti dalla miseria troppo velocemente. Ora paghiamo i danni e prima che il territorio si suicida possiamo fare tutti un salto di civiltà.

Un passo in avanti, uno scatto di maturità e ritornare ad essere esempio di modello per il mondo non per l’economia diffusa in modo caotico e spannografico, come è stato negli ultimi vent’anni, ma per la civiltà diffusa. La politica deve diventare cosa pulita, non cosa sporca come per tanti anni ci è stato insegnato dalla stessa Chiesa che con questo escamotage faceva confluire tutti i voti nella DC, e poi perso questo mito democratico, nella LEGA pseudoidentitaria che in realtà difende ancora i soliti sordidi interessi: pancia, individualismo, giardino di casa propria e dei grandi padroni. Chiesa e Gran Signori ancora alleati come ai tempi della Serenissima, illudendo la povera gente.

Bisogna valorizzare chi cura, coltiva, salva i territori, il bene comune, non solo chi ne estrae risorse come le fabbriche e le coltivazioni a regime industriale. Abbiamo perso la cultura e l’autogoverno delle acque, quello sì importantissimo durante la Serenissima repubblica, e reso i fiumi discariche. Una res-pubblica un tempo costruita sull’acqua e per l’acqua, in mano ora a gente come Zaia è diventata una repubblica fondata sul liquame e contro l’acqua. Ci siamo prosechizzato non solo il territorio (cito il Prof. Tiziano Tempesta), ma pure il cervello. Il Leone è un esempio magistralis sulla nostra deviazione mentale: hanno folklorizzato tutto. Nella bocca di Zaia tutto diventa folklore. Non riconosciamo più l’autentico dallo spettacolo, l’esigenza reale della comunità dallo strumentalizzazione politica dei simboli, il pane quotidiano dalla poltrona ad eternum. 

Bisogna fare perciò un’ulteriore salto. Bisogna finirla di mandare il figlio scemo di famiglia a fare il politico, un Variati, uno Zaia, un Galan, manipolati dal Zonin di Turno. Altrimenti da Regione virtuosa diventeremo lo zimbello del mondo per esserne la regione più spannografica, cialtrona e suicida. Dovete mandare i vostri figli migliori nelle facoltà di Scienze Politiche, nei Centri Diritti Umani, a Lettere, non solo a Ingegneria e Produttivismi vari. Altrimenti, se non c’è unione, organismo, composizione, tra corpo e mente, potremmo essere la Regione più brava del mondo a produrre, ma non sapremo mai come gestire le nostre ricchezze, che saranno sempre rubate dai plutocrati del mondo.

Il Veneto dovrebbe diventare la prima regione rescomunale del mondo – concetto ancora difficile da capire, ma ci provo – dove i beni comuni sono primi rispetto ai beni pubblici, dove lo Stato è uno stato di diritto confederato che aiuta i territori e le genti a crescere, rispettando le autonomie. Dove il pubblico è ai minimi termini, necessario, e il comune ai massimi termini, auspicabile.

Se proprio vogliamo un percorso di coerenza, un’identità, cerchiamola nella ricchezza delle relazioni e dei paesaggi che questa Regione unica al mondo, per geografia, possiede. E diamogli ogni giorno coerenza. Chi altro detiene Dolomiti e una Venezia insieme? Nessuno. Questa sua complessità potrà produrre non solo schei – la vecchia e putrida identità del primo Nordest – ma nuove formule del diritto e di civiltà.

Forse questo sogno riuniva il mito della Serenissima nel suo nome, il Leone dell’Evangelista Marco accolto in una terra ricca e complessa, serenissima, come nessuna. Questa serenità e apertura improvvisa ai nuovi mondi – una specie di “serendipità civile”, per riformulare un neologismo a me caro – dovrà essere il nostro tratto distintivo. Questa è la nuova Serenissima. Dove gli spannoveneti vanno capiti, curati, messi fuori gioco. Perché traditori, senza saperlo.

Dobbiamo così riappropriarci del simbolo del Leone, mettendo magari una leonessa, come simbolo di civiltà, antecedente alla stessa Repubblica Veneta che, mi ripeto, per quanto illuminata, era sempre una repubblica di patrizi che governava sui plebei della terraferma e le cose pubbliche erano pubbliche per i veneziani e interdette alla povera gente. L’attacco dei Serenissimi al Campanile di San Marco alla fine era un attacco della povera gente di campagna al mercantilismo patrizio marinaro dei Dogi, pure loro troppo ingozzati, anticipatori degli Spannoveneti, inebriati dal troppo che arrivava da altri mondi, a quel tempo ancora intatti. Un attacco delle periferie povere ai centri prevaricatori.

studio chilese ester
Lo studio sull’antico Leone Marciano, fatto da una delle più brave artiste grafiche del Veneto, Ester Chilese, per dare espressione al nostro testo,

Abbiamo bisogno di un salto, di una nuova bandiera di civiltà, non di un leone manipolato con la spada, abborracciato di vetroresina. Vade retro, Leon Sborassà. Evviva le leonesse di San Marco. Come le madri che stanno combattendo per difendere i propri figli dai PFAS. E i padri che le accompagnano valorizzando la loro sensibilità, trattenendo nell’ombra le scorie della prepotenza maschile.

SINTESI FINALE
Popolo Veneto? Non è che uno diventa Veneto per nascita o per diritto acquisito, ma ogni giorno si diventa veneto difendendo il proprio territorio da chi lo distrugge. Da chi? In primis, dagli Spannoveneti. Si affaccia all’orizzonte invece un nuovo popolo, annunciato dalle parole di Alessandro Anderloni, autore e direttore del Teatro Comunale di Lonigo, sulla scena teatrale che ha visto la comparsa di centinaia di ragazzi – contaminati – dei nostri paesi, nell’anno che la storia del Veneto e d’Europa ricorderanno come l’anno della sollevazione di un popolo oltraggiato: «Popolo delle Terre del Guà: andiamo a riconquistare la nostra acqua e la nostra libertà!» (nota 11)

Già, popolo delle terre. Non Popolo di chissà cosa.

Staxime ben.
ap
alberto_peruffo_CC
ANTERSASS CASA EDITRICE | Montecchio Maggiore | VI
12 OTTOBRE 2018

+++

NOTE E APPROFONDIMENTI

*Nota di lettura. Non è da tutti esser veneti, sembra dire il proverbio di apertura. Dopo il Referendum – Il mio scritto, forse, più incendiario – all’ombra del Leon Sborassà. 17+7 minuti di discesa nell’inferno/paradiso delle nostre identità collettive. Ciò che segue è una mia personale, provocatoria e spero intelligente, riflessione di carattere storico e sociopolitico, di cui mi assumo ogni responsabilità, appellandomi alla libertà di opinione e di critica. Tuttavia, dovendole dire, le cose, e dire bene, ed essendo il tema una questione complessa e potenzialmente deflagrante, ho pensato a tre livelli di lettura. Il primo relativamente breve, divertente e serio allo stesso tempo; il secondo, di approfondimento, a volte più difficile ed esigente; il terzo, subacqueo, con delle note, per coloro che vogliono proseguire la navigazione. Avvertimento: Serenissimi, prima di sparare a zero sul titolo di questo scritto e sul Leon Sborassà, leggetevi il testo fino alla fine. So che è lungo, ma a volte le parole sono necessarie. Soprattutto per creare civiltà, di fronte ai banali proclami dei nostri politici. Lo dedico agli uomini di cultura del nostro Triveneto, come Paolo Rumiz e Ulderico Bernardi. Lo dedico alle esigenze mal riposte dagli assaltatori del Campanile di San Marco e allo spirito ribelle della Ciminiera di Montecchio. Lo dedico a coloro che avranno il coraggio di arrivare/argomentare in/il fondo.

Nota 1. Fallito l’infantile mitopoiesi sul Po celtico, si tenta ora di appropriarsi della Grande Venezia. Sul Leone Castrato di San Marco, ovverosia il Leon Sborassà de Trissino, piantato sulla Rotatoria del Crimine Ambientale, chiamata così dagli attivisti NO PFAS, qui trovate tutto, inaugurazione e controinaugurazione, di supporto >> https://casacibernetica.wordpress.com/2018/10/10/lotra-inaugurasion-par-na-vera-autonomia-el-leon-insborassa-e-i-animai-rabia-14-ottobre-2018-trissino/ – Molto chiaro il commento sintetico dell’artista Stefano Zattera, autore del disegno distopico/satirico del Leon: «Il leone è il simbolo di un popolo che ha devastato il suo territorio mettendo sempre al primo posto lavoro, guadagno e interessi, e cercando nel “foresto” il capro espiatorio per i suoi mali. Il problema principale del Veneto è il popolo veneto».

Nota 2. Sull’identità, un mio contributo teorico lo si trova qui >> https://nonchiedetemiperchepenso.wordpress.com/2015/01/12/identita/ – Tra i libri di nostro riferimento sulla questione identità, Veneti, Canova 2005, del prof. Ulderico Bernardi, sociologo di Ca’ Foscari Venezia. Sottolineo questo straordinario passaggio, a pag. 33, oltre ad altri che troverete nel testo: «L’identità di un popolo è simile alla valanga, che rotola lunga la china dei secoli, ispessendosi di nuovi strati, più freschi. Un poco come la nostra identità veneta, plasmata e riplasmata su un nocciolo di adattamenti, integrazioni, scambi e fatiche delle generazioni».

Nota 3. Il libro di Paolo Rumiz di riferimento per queste e altre citazioni, è La secessione leggera, Feltrinelli, 2001. Il mio contributo sugli Spannoveneti fu scritto in occasione del referendum, dove parlo anche de «I popoli passano, i territori restano» e di infantile autonomia. Detiene, credo più per potenziale contropolitico, un record sui generis assoluto di visite su wordpress di CCC. Lo trovate qui >> https://casacibernetica.wordpress.com/2017/10/16/io-veneto-veneto-votero-no-mi-vergogno-di-questo-veneto-spannografico-i-popoli-passano-i-territori-restano/

Nota 4. Gli Enetoi di Omero, poi Veneti latini, secondo Dionigi di Alicarnasso che gli fa nascere dai Pelasgi del Peloponneso, sono «una stirpe di eterni migranti in cerca di una sede definitiva. La trovarono, scrive, dopo generazioni e peregrinazioni, alle foce del Po» – così scrive Ulderico Bernardi, Veneti, a pag. 26.

Nota 5. Il post che apparve su FB ed ebbe più di 1500 condivisioni, con relativa galleria, ripreso da Vvox e da altre testate, lo trovate qui >> https://casacibernetica.wordpress.com/2018/03/07/la-prima-argo-non-torneranno-i-prati-dove-si-seppelliscono-immondizia-memoria-coraggio-post-questa-e-la-terra-dove-vivo/

Nota 6. Tutto l’universo di connessioni di Non torneranno i prati, dalla prima recensione per il Brescia Winter Fest, alle ultime performance, qui >> https://casacibernetica.wordpress.com/?s=non+torneranno+i+prati

Nota 7. Sulla distruzione della Fontana di Valbona, situata a poche centinaia di metri dalla Rotatoria del Crimine Ambientale, qui trovate il racconto/reportage del Prof. Michele Santuliana >> https://casacibernetica.wordpress.com/2018/06/16/valbona-valbona-che-non-tornerai-cronaca-di-un-abominio-la-distruzione-del-territorio-e-delle-sue-tracce-piu-antiche-nel-veneto-contemporaneo/

Nota 8. Molti anni fa un gruppo di attivisti No Pedemontana – di cui facevo parte – incontrò il Commissario Vernizzi e gli chiese se sapesse dove passava esattamente la Pedemontana tra Castelgomberto e Montecchio: nel dettaglio non conosceva niente dei toponimi, delle zone critiche, delle risorgive, delle Rotte del Guà, della pericolosissima Miteni che fu esplicitamente citata. Ora è tutto distrutto, compresa la Fontana di Valbona e la Roggia dei Molini. Inconcepibile. Sul Disastro Pedemontana Veneta oltre al sito, vi rimando all’articolo Antropocene veneto sul consumo di suolo consegnatoci dal Prof. Geologo Dario Zampieri >> https://casacibernetica.wordpress.com/2018/08/30/antropocene-veneto-il-consumo-del-suolo-alla-luce-del-nuovo-rapporto-ispra-il-punto-su-acqua-e-pedemontana/ 

Nota 9. Ricordo questo passo di Ulderico Bernardi, sempre da Veneti: «Venezia, grande emporio mediterraneo, “luogo delle genti diverse”, grande crocevia di comunicazioni e risorse per tutti i popoli di questa antichissima agglomerazione plurietnica e multiculturale».

Nota 10. Per questi e altri studi scientifici, si veda il nuovo sito del movimento No Pfas >> pfas.land

Nota 11. Porto per esteso il passo tratto da La leggenda dell’acqua del Guà, di Alessandro Anderloni: «È così? E allora è stata la Regina di San Matteo a rubare l’acqua e a volerla tenere tutta per sé? Dovevo immaginarlo. Quella brutta ingorda e avida e cattiva. E allora andremo a prenderla. Tutti insieme: i paesani e le paesane, i conti e le contesse, ricchi e poveri, nobili e popolani, perché l’acqua non fa distinzioni, l’acqua è di tutti uguale, e tutti dobbiamo combattere per avere l’acqua. Riunite cavalli, carretti. Sellate cavalli e muli. Partiamo, tutti insieme. Popolo delle Terre del Guà: andiamo a riconquistare la nostra acqua e la nostra libertà!». Così parlò il Conte dei Maltraversi per ribellarsi contro la tirannide della Regina. La metafora compare proprio al tempo dei PFAS. Non occorre aggiungere altro, se non un invito a reclamare questa bellissima rappresentazione teatrale che ha coinvolto centinaia di ragazzi e famiglie. E una postilla alla ribellione: in realtà, i veneti, dovrebbero ribellarsi alle loro pance, alle loro abitudini peggiori.

Nella Cover, la suggestiva interpretazione del testo da parte dell’artista grafica Ester Chilese, dal titolo «Studio per una nuova bandiera del Veneto».

CHIUSURA ARTISTICA

In successione, l’interpretazione del Leone di Trissino fatto da Michela Piccoli, mamma no pfas, e dal grande artista Stefano Zattera.

Segue IL LEON DI PLASTICA al centro della Rotatoria Ramonda di Trissino (un’opera centripeta, “serva del potere” direbbero i critici), e l’opera forse più interessante di tutta la Valle dell’Agno in fatto di installazione, quasi permanente, NON TORNERANNO I PRATI (opera centrigufa, fuori dalla Rotatoria Pedemontana Trissino/Castelgomberto, “contro il potere”, direbbero sempre i critici). La prima è di “autori noti e finanziatori ignoti”, la seconda è di “autori poco-noti e senza finanza”. Amen.

Leone LogoLEONE_color_small

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